I fatti di questa prima domenica di febbraio 2004 sono chiari: praticamente in contemporanea due kamikaze si fanno esplodere nelle sedi del PUK e del PDJ a Erbil, Kurdistan. Il generale americano Mark Kimmitt parla di oltre 200 feriti. Mohammad Ihsan, ministro per i diritti umani nel governo regionale kurdo parla di circa 150 morti, 60 nella sede del PUK e 80 nella sede del PDK. Tra questi numerose figure di rilievo: Akram Mintik, governatore della provincia, il vice primo ministro Sami Abdul Rahman, i ministri Shawkat Sheik Yazdin e Saad Abdullah. Nell’occasione della festa la sorveglianza era forse allentata e, sicuramente, qualche folle integralista ha pensato di approfittarne ammazzando chi considera infedele. Tra l’altro, proprio nei giorni scorsi alti esponenti del PUK avevano esplicitamente accusato il terrorismo islamico e le sue ramificazioni Kurde degli attentati in Iraq. Come da me già raccolto alcuni mesi fa in Kurdistan, gli ufficiali di governo hanno pubblicamente sostenuto che gruppi kurdi di matrice islamica, già attivi nel Kurdistan iracheno prima della guerra contro l’Iraq, sono tuttora responsabili degli attacchi terroristici nel Paese con riferimento esplicito ad Ansar Al Islam, stretta parete di Al Qaeda, il cui leader Mullah Krekar è ancora ospite (rifugiato) in Norvegia. Il colpo di questa domenica è significativo: avviene in un momento di festa per l’Islam; avviene a Erbil, la città in cui i due maggiori partiti del Kurdistan cercano di ricostruire un’intesa nazionale in un parlamento comune; colpisce entrambi i partiti kurdi, il PUK e il PDK. La matrice è quella del fanatico terrorismo islamico che non può tollerare di “santificare” le feste senza uccidere, perfettamente coerente con le parole di Keis Abu Assim, di Ansar, con cui ho parlato ad agosto. La ragione sta nella impossibilità per il terrorismo islamico di tollerare qualunque modello di democrazia emergente, a cui lo stesso Iraq potrebbe ispirarsi, il cui incubatore può essere proprio il Kurdistan. La risposta si ritrova nella eliminazione radicale del terrorismo. Ma lo scenario che si apre dopo questo attentato è difficile e complesso. Le truppe alleate non sono in grado di affrontare la guerra contro il terrorismo in Iraq né di gestire il dopoguerra. Tantomeno, in queste condizioni, l’Iraq può affrontare da solo un cammino democratico proficuo affrettando elezioni scontate. Queste cose Ansar/Al Qaeda le sa e colpisce duro affinché la situazione precipiti. Già questa è una buona ragione per tenere duro. Ma accettando la sfida della complessità e introducendo nuovi possibili fattori di potenziale stabilità. Come per esempio: leggere, da parte americana, con più obiettività le interessate pressioni turche sul Nord, per “ri-cortocircuitarne” gli interessi secondo una più ampia prospettiva regionale. Inoltre, avviare da parte USA (o continuare in una sede protetta magari Svizzera!) concrete relazioni con l’Iran, che può essere un alleato prezioso contro Al Qaeda, interlocutore con gli sciiti e, di fatto, stabilizzatore dell’area proprio con la Turchia. Ancora, provare a ribaltare le ipotesi di federalismo etnico in federalismo territoriale, cosicché le autonomia regionali si concretizzino sulla base di geometrie flessibili definite dalla popolazione di ciascuna area. E infine, questa volta per tutti e per noi europei in particolare, essere presenti in Kurdistan e nell’Iraq, per portare gli strumenti della democrazia, quelle “cose”, cioè, che cambiano la vita quotidiana degli uomini.
Marco Lombardi