Ci sono ancora tante questioni e ve ne saranno in futuro, da esprimere e considerare circa il terremoto in Giappone dell’11 Marzocon magnitudo 9.0 della scala Richter.Prima di tutto,lamagnitudo, l’intensità e la durata di questo terremoto verificatosi in una delle zone del mondo a maggiore rischio sismico è stata una delle più alte nel corso della storia dei terremoti del Giappone e del mondo.
In questo scenario le parole di Karl A. Western risultano vivide e utili per comprendere l’impatto sociale dei disastri naturali e i loro devastanti effetti sulla vita degli uomini:
“da un certo punto di vista, un disastro diventa un disastro solo quando vengo coinvolti uomini o ambienti creati dagli uomini.”
Al di là del conteggio esclusivamente numerico delle vittime e dei dispersi e delle cifre in dollari dei danni economici causati, utili per uno studio statistico circa “il disastro giapponese”, l’attenzione potrebbe e dovrebbe essere maggiormente destinata ad alcune considerazioni di natura organizzativa, sociale e culturale in quello che viene considerato il crisis management in sociologia.
Infatti il terremoto in Giappone è stata l’origine primaria di eventi critici scatenatesi in seguito ad esso, come lo tsunami del quale è stata vittima una parte costiera del Paese o il problema del raffreddamento delle centrali nucleari.
In questo caso la tecnologia di allerta e costruzione ingegneristica per la quale il popolo giapponese è conosciuto al mondo, non è riuscita ad evitare un’ondata di fango, detriti, case, navi che si è abbattuta fino all’entroterra distruggendo e travolgendo qualunque cosa trovasse sul suo cammino.
La mancanza di energia elettrica e la destabilizzazione provocata dal terremoto hanno aperto la discussione non tanto circa la gestione dell’emergenza in caso di disastro ad una centrale nucleare o in situazione di emergenza nucleare, ma alla legittimità dell’utilizzo o meno dell’energia nucleare da parte dei governi e dell’amministrazione pubblica orientando una questione che nel tempo specifico dell’impatto e dell’immediata risposta verteva su un’altra problematica.
Il piano cognitivo quindi, sul quale sono state trasmesse le informazioni alla popolazione non solo giapponese ma mondiale ha diretto l’attenzione circa la possibilità o meno di utilizzare l’energia nucleare come energia alternativa all’ “oro nero” generatore di tante crisi socio-economiche-politiche, dato questo evidente dalla velocità con la quale ogni singolo Stato europeo si è espresso su questa questione.
La preoccupazione centrale di questi giorni, a quasi due settimane dall’evento scatenante convergono sulla questione nucleare, lasciando ampiamente scoperto il fatto evidente che ogni giorno, in quella zona del Giappone già colpita si verificano scosse di terremoto di magnitudo fra i 5.0 e i 6.0 gradi della scala Richter.
Questo elemento è importante considerando che in particolare per l’Italia, gli ultimi terremoti dai quali è stata colpita causando rilevanti perdite umane, architettoniche ed economiche si aggiravano proprio intorno a questa magnitudo.
Il discorso quindi ha una complessità intrinseca non da ultimo per l’effetto domino generato, che non può e non deve essere definito come uno scenario totalmente apocalittico: non fosse stato il Giappone con il sistema di Protezione civile, di prevenzione e formazione dedicata alla popolazione, questione si ribadisce, sostanzialmente sconosciuta se non per rare e discontinue eccezioni ai Paesi europei, allora sì si potrebbe parlare di Apocalisse o disastro di inimmaginabili proporzioni, tenuto conto la magnitudo iniziale e conseguente dei giorni successivi il primo sisma.
La popolazione per quello che è stato documentato dai mezzi di informazione e da alcune testimonianze raccolte ha mostrato una reazione che potrebbe essere portatrice di più interpretazioni.
Infatti, se da un lato ha dimostrato di aver appreso e fatto proprie misure di sicurezza e comportamenti di risposta agiti in accordo a pratiche consolidate da una millenaria convivenza con gli eventi sismici e una efficiente formazione della popolazione; dall’altro lato da un punto di vista squisitamente sociologico ciò non esclude che comportamenti e reazioni sociali simili siano frutto di una società altamente socializzata, dove il bene della comunità in senso di insieme di individui ha un valore superiore che non in altre contemporanee società maggiormente individualiste.
Rimane da comprendere, che nonostante qualsiasi sforzo individuale e teso alla massima autosufficienza in qualsiasi occasione, gli eventi come questo riportano alla mai tramontata coesione sociale, necessaria per sopravvivere sia come società, sia come singoli.
A parere di chi scrive ciò che ha più sconvolto gli “spettatori” stranieri di tale evento sono due ordini di idee:
1. la consapevolezza anche implicita, che se fosse successo un evento identico in un altro luogo, con altre caratteristiche sistemiche, strutturali, sociali e territoriali ben poco si sarebbe salvato
2. la consapevolezza che la tecnologia non sarà mai totalmente sicura per definizione, comportando sempre ed inevitabilmente dei rischi, con i quali però si può cercare di vivere attuando strategie gestionali ed operative di un certo livello ed approfondimento. Questo punto, ovvero l’accettabilità delle tecnologie come fonte di progresso, benessere ma anche rischio (negli ambiti di salute, ambiente, vita), in questi primi anni di un nuovo secolo dovrà essere oggetto di un’attenta analisi in termini di impatto, valutazione di efficacia ed efficienza, popolarità, da parte dei governi dei Paesi industrializzati e più avanzati, tenendo conto che generalmente meno informazione e formazione alla popolazione viene offerta, maggiore sarà l’incremento di quella vulnerabilità sociale che deriva da scarse conoscenze in materia di prevenzione e comportamenti in casi di emergenza.
Pertanto la vulnerabilità intesa come quella componente non conosciuta e intrinseca che fa parte tipicamente del sistema in oggetto, è composta da molteplici aspetti interrelati fra loro e attinenti a ordini differenti di letture: dalle caratteristiche dello spazio abitativo a quelle infrastrutturali, alla componente culturale e sociale della popolazione, nonché alla situazione economica e geo-politica del Paese colpito attraversando quindi contemporaneamente livelli interpretativi micro, meso e macro della vita sociale.
La vulnerabilità considerata dal punto di vista scientifico diviene un elemento con il quale è possibile convivere a condizione di riconoscerla attraverso una adeguata analisi e valutazione del rischio al quale si è o si potrebbe essere esposti, ben inteso che inevitabilmente una zona d’ombra anche minima non ancora prevista sarà sempre presente.
La possibilità di conoscere aspetti di vulnerabilità richiede, ancora una volta, che accanto al progresso negli impianti tecnologici vi sia un pari aumento delle capacità di risposta delle persone e della popolazione in generale.
L’importanza della formazione trova la sua stessa necessità di esistenza nella radicata consapevolezza, che l’incremento della sicurezza personale e quindi la diminuzione del grado di vulnerabilità attribuibile individualmente e socialmente può e dovrebbe essere influenzata da una comunicazione e in – formazione rivolta ai cittadini che, inutile negarlo, in un mondo sempre più complesso e caotico, risultano essere i primi soccorritori di se stessi.
Questa infatti è un’altra questione, che dovrebbe essere portata alla luce nella nostra attuale società post moderna ovvero che, nonostante una ramificazione e securitizzazione (non solo perimetrale, ma anche di contenuto) delle società e dei luoghi nei quali abitiamo, un margine di incertezza e insicurezza è affidato a noi stessi ed è configurabile come quella componente di sicurezza personale, che a dispetto di qualsiasi programma o innovazione per una maggiore sicurezza, è rimasta invariata nel corso del tempo. Questo scenario fa parte della più comune humana conditio con la quale, grazie all’apporto di alcune concezioni degne di un nuovo Illuminismo, ci stiamo disabituando a convivere.
Infine a parere di chi scrive, la drammatica situazione in Giappone ha avuto il triste merito di farci comprendere che anche con un terremoto di magnitudo 9.0 scala Richter è possibile sperare nella sopravvivenza di vite umane e che le azioni di prevenzione e formazione, se adeguatamente agite in termini di contenuti, esercitazioni e tempistica possono realmente influenzare nella sua diminuzione il grado di vulnerabilità sociale, relazionale e comunicativa, riconoscendo come fondamentali e imprescindibili le culture locali, miti e tradizioni caratteristici del luogo o spazio sociale dove l’evento naturale si manifesta e nel quale si dovrebbero introdurre principi pratici e linee guida di un crisis management culturalmente condiviso e operativamente agito.
Barbara Lucini