Venerdì 26 giugno viene arrestato in provincia di Como Fayek Shebl Ahmed Sayed con l’accusa di associazione per finalità di terrorismo. Un mandato di arresto è stato inoltre spiccato per suo figlio, il 24enne Saged, latitante in Siria dove milita nelle file di una katiba qaedista, la Nour El Din Al Zenky.
Arrestata e rimpatriata in Marocco anche la moglie di Sayed, Imrane Halima, classe 1972, marocchina naturalizzata italiana che condivideva e appoggiava l’operato di figlio e marito.
Una storia di evidente radicalizzazione familiare in quanto fu proprio Sayed a inviare il primogenito Saged a combattere, affinché potesse “purificarsi”:
“La mia intenzione era che lui andasse là per purificarsi, per diventare un essere umano”.
Secondo Sayed infatti la lotta armata del figlio “equivale a mille ore di preghiera”.
A un certo punto, quando Saged viene ferito in battaglia e la sua volontà di continuare a combattere vacilla, Sayed lo spinge a combattere ancora ricordando che il martirio è un grande onore per la famiglia.
Se Saged era il “cocco di papà”, il mujahid protetto e supervisionato da Sayed, il figlio minore era invece un “fallimento”, un “cane” la cui colpa era quella di essersi integrato nella società dei miscredenti occidentali:
“Tu vivi nel peccato, nel peccato. Basta che stai vivendo con una sporca“, diceva l’uomo al secondogenito, “colpevole” dal suo punto di vista, di “vivere con un’italiana” ed essere integrato nel nostro Paese.
Già, perché per Sayed integrarsi e interagire con gli italiani è una “colpa”, un “peccato” e per scongiurare che la sorella potesse seguire le orme del fratello “integrato”, il padre e la madre provvedevano a un sistematico lavaggio del cervello che la mantenesse fedele all’islamismo radicale.
La storia non finisce qui, perché Sayed aveva anche cercato di sviare le indagini recandosi in questura a Como e alla Digos dove aveva raccontato che il figlio, partito da pochi mesi per la Siria, era andato a combattere contro la sua volontà, e che lui lo aveva cacciato di casa perché temeva che il secondo figlio lo seguisse. Cosa rivelatasi poi falsa, visto che era stato proprio Sayed a convincerlo a partire per la Siria.
In alcune intercettazioni infatti Sayed si definiva “orgoglioso” della scelta del figlio e ad alcuni amici confessava di “essere stato costretto a fare la sceneggiata in questura per salvarsi la schiena”.
Ci sono alcuni aspetti di particolare interesse che emergono dall’operazione “Talis pater”.
In primo luogo è evidente come Fayek Shebl Ahmed Sayed sia il “grande burattinaio” della via intrapresa dal figlio (in parte per scelta e in parte per spinta), il padre-padrone che gestiva e decideva vita e morte (il martirio è un onore, dunque resta a combattere!).
Sayed obbligava la famiglia a mandare 200 euro mensili al figlio in Siria, lo convinceva a restare a combattere anche quando Saged iniziava a essere titubante dopo un ferimento in battaglia; intercedeva con i capi della katiba qaedista quando il figlio veniva messo in punizione.
Del resto Sayed stesso è un ex qaedista ed ex membro dell’unità “el-Mudzahid”, formata in Bosnia nei primi anni ’90 da jihadisti arabi veterani della guerra afghano-sovietica con l’obiettivo di combattere i serbi.
Tra i jihadisti noti che svolsero ruoli di primo piano in “el-Mudzahid” vi sono l’algerino Abu Maali (algerino e membro del Gia), Anwar Shaban (ex imam di viale Jenner) e Bilal Bosnic, principale predicatore e reclutatore dell’Isis, presente in più occasioni in Italia su invito di vari centri islamici. Fu Bosnic a far reclutare Ismar Mesinovic, Munifer Karamalesi ed Elmir Avmedoski, i tre balcanici residenti nel Triveneto e arruolatisi nell’Isis.
Tornando a Sayed, giungeva a Como nel 1996 dalla Bosnia e suo figlio Saged nasceva due anni prima, nel 1994, proprio nei pressi di Zenica, città dove face base l’unità “el-Mudzahid” tra il 1993 e il 1995.
Per Sayed al-Qaeda era parte della sua storia, della lotta contro i serbi, come rammentava spesso nei suoi racconti di guerra. Suo figlio doveva ricalcare l’ideale del mujahid pronto a combattere sulla via di Allah. Sayed sa come interfacciarsi con i jihadisti e difatti è proprio lui ad intercedere con i capi-katiba quando il figlio si mette nei guai.
In secondo luogo è interessante la dissimulazione che Sayed aveva messo in atto fin dai primi anni in cui era arrivato in Italia.
Già segnalato in precedenza come frequentatore del Centro Culturale Islamico di viale Jenner, come “uno degli egiziani della vecchia guardia di Bosnia”, come un sostenitore dell’organizzazione jihadista egiziana Gamaa al-Islamiyya, particolarmente attiva a Milano negli anni ’90, al punto da allarmare i mukhabarat del Cairo.
Sayed viveva in quella società che odiava, i cui membri venivano definiti “cani” e con i quali non bisognava avere rapporti interpersonali. Una doppia faccia, perché se da una parte cercava di apparire come un moderato, dall’altra raccontava ai suoi amici arabi di come era orgoglioso del suo primogenito (e potrebbe essere interessante anche conoscere meglio i profili di questi suoi amici).
L’egiziano viveva nella società italiana, ne usufruiva e pensava di nascondervisi portando avanti la propria ideologia del terrore e arrivando al punto di cercare di sviare le indagini per coprirsi le spalle. Evidentemente Sayed non aveva una gran considerazione delle istituzioni italiane e pensava di poter prendersene gioco, ma sbagliava.
Un’ultima riflessione sulle ragioni della presenza di Sayed in territorio italiano è doverosa. L’egiziano è uno dei tanti ex mujahideen arabi fatti confluire in Bosnia nei primi anni ’90 nella già citata unità “el-Mudzahid”. Un utile proxy da sguinzagliare contro i serbi in Bosnia, all’epoca satellite di Mosca nei Balcani. Dopo gli accordi di Dayton nel dicembre del 1995 molti di questi jihadisti restarono in Bosnia, mentre altri si spostarono in altre zone dell’Europa. Nei Balcani diedero vita a enclaves salafite e iniziarono a divulgare l’ideologia jihadista e takfiri. Sayed, suo figlio, così come Bilal Bosnic sono tutti prodotti di quella strategia. Ne è valsa la pena? Probabilmente no.
E comunque la storia di Sayed insegna, confermando, le conclusioni della analisi più recenti, che cercano di sfuggire agli stereotipi consolidati sui processi di radicalizzazione.
Da questa storia, infatti, emerge che
- la storia personale e del nucleo familiare lascia spesso una traccia che orienta il futuro: il lascito culturale del vecchio jihadismo balcanico non è superato e può caratterizzare interi nuclei familiari che al loro interno riproducono quella cultura estremista e violenta;
- i processi di radicalizzazione sono stati spiegati troppo spesso in ragione degli innamoramenti degli analisti che, alternativamente, hanno accusato moschee, prigioni e la rete digitale come le uniche cause della radicalizzazione. Non è così: il processo complesso e non esclusivo, ma soprattutto le reti sia familiari sia amicali emergono come fattori certi di perfezionamento del processo;
- i processi di radicalizzazione, diversi per percorso benché eguali negli esiti, sono ancora in grado di sorprendere chi vorrebbe combatterli con armi (es. le narrative) che non sono capaci di adeguarsi alla rapidità del loro costante adattamento e cambiamento;
- il risultato del processo di integrazione è, più spesso di quanto ci si aspetti, superficiale e relativo a comportamenti che sono solo mimetici.
Appunto storia di Sayed insegna.