I recenti successi delle operazioni via terra in Siria, che hanno gravemente limitato il territorio sotto il controllo del Daesh, hanno scaldato i cuori e le menti di molti che hanno ritenuto che la sconfitta del Daesh fosse ormai dietro l’angolo, prima con l’accelerato dinamismo delle operazioni su Mosul e ora spostando l’attenzione su Raqqa, secondo la medesima linea interpretativa per cui privare il Daesh del territorio sia il fatto vincente esclusivo.
La questione si pone sul piano della rilevanza dell’occupazione di un territorio nella strategia del terrorismo ibrido che pone nei confronti dei suoi nemici una minaccia diffusa, delocalizzata e pervasiva. Il Daesh, già dal mondo in cui ha fatto evolvere il suo nome, ha dimostrato quanto l’occupare uno spazio fisico fosse al contempo utile ma “adattabile”. Di certo, il potersi definire stato attraverso l’occupazione e la difesa di un territorio ha giovato in termini comunicativi e ideologici per la restaurazione propagandata del califfato, e ha rivestito un ruolo importante nel reperimento delle risorse necessarie per il sostentamento del gruppo. È altrettanto vero, condiviso e accettato tra gli “addetti ai lavori”, che la compressione spaziale delle forze del Daesh, o la loro sconfitta sul terreno, non rappresenti affatto la sconfitta del terrorismo jihadista.
Infatti, in prospettiva, l’estirpazione del Daesh dalla Siria e dall’Iraq potrebbe fornire nuova linfa alle spinte ideologiche basate sulla restaurazione del profetico califfato: essendo riusciti a riportarlo in vita ed avendolo difeso per oltre due anni, la convinzione che possa essere nuovamente ricostruito in maniera sempre più stabile può fare breccia nelle menti di combattenti che non vedono nella sconfitta di una battaglia la fine della guerra. Non bisogna dimenticare che proprio la delocalizzazione del conflitto, che ha caratterizzato in particolare lo sviluppo del terrorismo del Daesh, ha già portato al riconoscimento di numerose province al di fuori delle zone in cui si sta consumando la battaglia, che potrebbero rafforzare la propria presenza e prestigio per andare a sostituire nella retorica e di fatto il primato della Siria e dell’Iraq.
La spinta in questa direzione potrebbe essere fornita da un rafforzamento della propaganda del vittimismo, già ampiamente e costantemente utilizzata per raccogliere forze che vogliano schierarsi contro la situazione propagandata dell’oppressione dei mussulmani che, a seguito della perdita del territorio, potrebbe vedere un sensibile aumento.
Ad ogni modo, però, quando si parla di sconfitta del Daesh, è forse più rilevante concentrare l’elaborazione di scenari relativi agli uomini e all’ideologia.
E proprio in relazione a quest’ultima, è interessante notare come la propaganda, strumento comunicativo proprio dell’ideologia, abbia di fatto già aperto la strada ad una possibile sconfitta di terra del Daesh sostituendo alla conquista e il mantenimento dello spazio quello del tempo. “Siamo qui per restare” è infatti uno slogan che compare affiancato all’aumento della rilevanza della figura della donna, impiegata prevalentemente in uno scontro che non si svolge in un campo di battaglia fisico ma temporale: la donna diventa sempre più la combattente del tempo, quella che assicura la creazione di nuove generazioni di nuove leve in grado di proiettare la minaccia nel futuro.
Sempre alla dimensione ideologica è legata invece la possibilità che il mondo islamista, monopolizzato dal Daesh, possa trovare nuovi spazi per un jihad più “moderato”. La violenza , le barbarie e la minaccia portata al pubblico internazionale attraverso i massacri compiuti dal Daesh potrebbero lasciare spazio ad un jihadismo più “politico”, caratterizzato da una diminuzione della leadership del Daesh e da un rafforzamento della presenza dei gruppi qaedisti, al-Qaeda in primis, che da sempre hanno indicato i mezzi scelti dal Daesh per seminare terrore come troppo “estremi”.
Spostando invece l’attenzione agli uomini del califfato, le loro sorti sono alla base di altrettanti scenari che possono avere conseguenze sia nel breve che nel lungo periodo per i paesi occidentali.
È condivisa tra le agenzie europee la convinzione che la minaccia maggiore, almeno nel breve periodo, sia posta da persone che risiedono nei paesi dell’unione e che abbiano avviato un processo di radicalizzazione o siano ritornati dalle zone di conflitto. Ad ogni modo, la possibile compressione del territorio sotto il controllo del Daesh, potrebbe sensibilmente influire sui flussi da e per i territorio della Siria e dell’Iraq. Da un lato, infatti, si potrebbe assistere ad un incremento dei combattenti, provenienti perlopiù da paesi non europei, dai quali è sempre più difficile partire, che nello strenuo tentativo di non cedere terreno vadano ad ingrossare le fila del Califfato. Molto più probabile è invece che coloro che dovessero sopravvivere possano decidere di spostarsi in altre zone di conflitto, come ad esempio la Libia, perché impossibilitati a rientrare nei loro paesi di provenienza o perché alla ricerca di luoghi in cui esercitare la propria vocazione al combattimento. Al momento, infatti, la percezione diffusa è che il numero di combattenti di ritorno che possano decidere di tenare di rientrare in Europa possa essere contenuto. Al contrario, invece, ci si attende che possa aumentare il numero di donne e minori che vogliano abbandonare il territorio liberato, ponendo in evidenza problemi verifica dell’identità e del coinvolgimento nel raggiungimento delle finalità del Daesh.
Diversi gli scenari quindi che si possono aprire una volta che anche tutto il territorio controllato dal Daesh in Siria e Iraq dovesse essere liberato. Certo è che la sconfitta sul campo, e sul quel campo specifico ribattezzato Siraq, non può di certo essere ritenuta la vittoria contro il terrorismo. Sarebbe infatti un grave errore in termini politici ma anche operativi, frutto di una miopia alla quale però in passato si è purtroppo frequentemente assistito.