Gli entusiasmi troppo facili per la Primavera Araba si sono raffreddati e già si guarda alla stagione invernale. Queste ultime ore hanno rallentato forse di un tempo il succedersi delle stagioni, considerato che dalle elezioni del 7 luglio in Libia emerge una vittoria della coalizione moderata dall’ex premier del Cnt Mahmoud Jibril. Ma si tratta di una vittoria limitata agli 80 seggi riservati ai partiti e, dunque, aperta soprattutto alle insidie dei 120 eletti nei seggi indipendenti. Non mi stupirebbe da qui un rilancio dei Fratelli Musulmani: se tra i partiti ci si aspetta una trentina di donne elette, tra gli indipendentisti solo una e questo potrebbe essere indicatore di un atteggiamento più radicale. In ogni caso il Paese, che conferma l’impronta laica del Colonnello concretizzata anche nella repressione dei movimenti più radicali, è frammentato in una miriade di rivalità tribali e claniche che rendono assai incerto un indirizzo nazionale coeso.
Per il resto le vicende sono quelle già espresse da molti commentatori.
In Egitto i Fratelli Musulmani con il presidente Mohammed Morsi hanno celebrato il risultato della piazza e oggi lo scontro si è focalizzato sullo scioglimento del parlamento (sciolto, ricostituito, risciolto… a colpi di sentenza) tra presidente, militari e giudici. La storia dei Fratelli è certamente radicale e populista: due caratteri che alternativamente non piacciono agli occidentali né alle monarchie del Golfo. Dunque una situazione evolutiva di difficile previsione ma che di certo deve incorporare i caratteri specifici dei Fratelli, che è la ragione del loro successo.
La Tunisia è da tempo alle prese con i disordini dei salafiti che se la prendono con gallerie d’arte osé e con turisti al bagno, e che, sul piano politico, incassano un punto con il chiaro rimando all’articolo Primo della Costituzione del Paese per la parte in cui sottolinea che sia Islam la religione di stato. Da cui ne discende che ogni principio in contrasto con l’Islam è non accettabile, almeno per il Fronte Riformista.
L’Algeria sembra essere immune a una deriva islamista, probabilmente perché da una parte la mano dura del regime ha bloccato le opposizioni ma dall’altra ne ha incorporato alcuni esponenti (radicali e tuareg) elargendo qualche carica pubblica. Contemporaneamente ha incrementato le spese di sostegno alla popolazione riducendo il malcontento: una rischiosa politica dell’”abbozzo” che può reggere ma che non può garantire rispetto alle tensioni che provengono dai confini.
Uno sguardo oltremare poi fa rabbrividire. Intendo uno sguardo alla Siria dove il mese scorso il primo taxista spagnolo che combatteva il proprio jihad – addestratosi in Nord Africa – è stato ammazzato e dove si corre il concreto rischio di fornire armi come si fece ai mujahidin afghani che combattevano i sovietici, per poi trovarsi noi con quelle armi puntate contro.
A questa situazione istituzionale più che instabile si aggiunge la totale perdita di controllo del Grande Deserto (il Sahara) dove la saldatura tra qaedisti di Aqim, ribelli tuareg e reduci armati dei conflitti ha portato all’annichilimento delle capacità di intervento dei già scarsi regimi locali. La grande area attraversata dai confini di Marocco, Algeria, Mauritania, Mali, Niger, Libia, Ciad, Egitto e Sudan ha ormai raggiunto una sua indipendenza rispetto ai paesi in cui formalmente si trova, con una rapida estensione verso sud.
D’altra parte la Primavera ha lasciato spazi di terra e di politica vuoti, immediatamente occupati con la tattica opportunistica a cui ci ha abituato il qaedismo di Aqim, sostenuto da “La Base” con azioni e proclami che hanno sempre rinfocolato la rivolta, fosse il colpo di stato in Mauritani a ei primi moti in tutti i paese del nord.
Da parte sua l’Occidente non poteva fare molto, imprigionato in un’imbarazzante contraddizione: i dittatori e i regimi abbattuti erano sostenuti dai legami dell’economia funzionale alla nostra sopravvivenza in perfetta opposizione con i principi da noi proclamati e apertamente affossati dai regimi a noi amici.
La conclusione, di quella che non è una analisi ma un breve constatazione, è che l’Afghanistan che abbiamo combattuto – ormai a cominciare da dieci anni oggi – è a due bracciate di nuoto dall’Italia. E se non abbiamo imparato la lezione corriamo il rischio di perdere la guerra alle porte di casa.
La situazione impone di non stare alla finestra ma di cominciare un’azione soprattutto di comunicazione e di dialogo a partire dal principio che l’essere un radicale islamista non vuole dire essere un terrorista né un jihadista.
Parto da una mia esperienza personale in Afghanistan nel 2009, poco prima delle elezioni, a una cena con il Ministro dell’Educazione. Al tavolo alcuni alti rappresentanti americani e canadesi, qualche ufficiale Isaf, l’entourage del Ministro. Sull’ovvio argomento elettorale intervengo ricordando che ci sono “importanti stati occidentali che vivono bene con un basso rate di votanti”: risolino divertito di US presenti. E che poi “signor Ministro non l’ha detto Allah che dobbiate essere uno stato democratico”: digrignare di denti della tavola occidentale con occhiate che vogliono incenerirmi. Ma a conclusione della cena, in disparte vengo preso dall’entourage che esordendo con “professore, noi siamo dei convinti radicali islamici, quello che ha detto ci interessa” si è cominciato a discutere su quale potessero essere le forme di rappresentanza legittime e legittimabili.
Insomma, senza rinunciare a principi e identità nostri che devono essere ben saldi, dialogare con chi si definisce un radicale islamista oggi è necessario.
A partire da ciò è certamente utile mettere in discussione le politiche di cooperazione e di migrazione, ma anche quelle militari di collaborazione e quelle economiche di reciproco interesse. Perché nulla può più essere dato per scontato e la situazione ai nostro confini è tale da richiedere un cambiamento forte, soprattutto una attitudine pro-attiva che spesso l’Italia non ha avuto. Non possiamo stare a guardare, ma è fondamentale oggi avviare attività in Nord Africa, con la molteplicità e diversità degli attori di cui disponiamo, per conoscere, informare e informarsi, discernere tra l’uno e l’altro, avviare collaborazioni. Ormai il dialogo è opportuno farlo sulla sabbia sahariana, fianco a fianco, con le parole e con i fatti – fosse scavando un pozzo o combattendo un nemico, comunque insieme noi e loro – perché la conoscenza che genera l’intesa politica è frutto “del campo”, dove si distingue il radicale dal qaedista, il tuareg dal salafita, l’uno dall’altro è la premessa al tentativo di abitare un futuro Mediterraneo di pace… o almeno “compatibile”.
Marco Lombardi