Younes Abaaoud, quindicenne, fratello di Abdelhamid (osannato dalla propaganda del Daesh nonché mente e attentatore delle stragi di Parigi), sarebbe in viaggio verso l’Europa. La notizia, che ha allertato le agenzie di sicurezza di tutto il continente porta con sé almeno un paio di riflessioni, urgenti e necessarie.
Innanzitutto, il profilo di quello che potrebbe essere un possibile attentatore contro il quale le forze di polizia in Europa non sono abituate ad intervenire. La figura del bambino/ragazzo non è certo nuova al terrorismo ma di certo quello che sarebbe nuovo è il contesto all’interno del quale si colloca: se, infatti, in territori come l’Afghanistan, l’Iraq o il continente africano si è di fatto preparati alla possibilità che l’attentatore possa essere anche un bambino, la presenza di Younes in Europa porterebbe a rivedere il prototipo del terrorista, soprattutto in un’ottica di neutralizzazione della minaccia.
A questo proposito, quindi, diventa necessario riflettere sulle modalità di individuazione di potenziali sospetti e sulle strategie di intervento. Fermo restando una specifica e puntuale azione di prevenzione e di intelligence, l’eventuale necessità di entrare in azione contro un target particolare come un bambino impone un ripensamento culturale ed etico. Ammesso che sia possibile fermare un attentatore pochi secondi prima che prema il bottone del detonatore, come si interverrebbe se l’innesco fosse tenuto da un 15enne?
L’addestramento su scenari e target verosimili può fornire uno strumento sicuramente importante per testare le modalità di risposta nella piena consapevolezza che le attività reattive, anche in caso riuscissero a sventare un attacco, non possono essere l’unica strategia adottata.
La securizzazione degli spazi cittadini e la reattività delle forze in campo per evitare il verificarsi di un attacco terroristico non sono infatti sufficienti. È possibile quindi implementare una strategia comunicativa, oltre che operativa, che possa contribuire a rendere alcuni obiettivi meno appetibili al terrorismo?
La domanda non è certo di facile risposta ma alcune considerazioni, vista la tipologia dei target prescelti per i più recenti attacchi, possono avanzare una proposta. Da un lato, il terrorismo è comunicazione e giova, come ha dimostrato la propaganda del Daesh a seguito degli attacchi di Parigi e poi di Bruxelles, delle narrazioni dell’orrore successive all’attentato stesso; dall’altro è la popolazione civile ad essere colpita in ognuna degli attacchi citati.
Una strategia comunicativa, in grado di arginare il proliferare delle narrazioni dell’orrore e capace di proporre una lettura diversa dell’evento potrebbe potenzialmente arginare l’efficacia mediatica dell’attacco stesso e così porre necessarie riconsiderazioni da parte dei terroristi circa tipologia del bersaglio. Una linea perseguibile sarebbe quella di proporre le storie degli “eroi” degli attacchi, questa volta non i kamikaze dipinti dalla propaganda, ma coloro che si sono resi responsabili di azioni eroiche nella gestione dei soccorsi, che hanno permesso, attraverso le loro azioni, che qualcuno si salvasse, che il bilancio finale non fosse così negativo. Insomma, un ribaltamento della prospettiva anche da parte “occidentale”. In un periodo in cui spesso si parla di responsabilità del giornalismo, forse un’intesa sulle strategie mediatiche per combattere ulteriormente la propaganda e magari influenzare quelle operative del Daesh potrebbe portare a dei risultati apprezzabili.