Sugli attentati in Belgio andremo avanti a lavorare a lungo perché promettono approfondimenti interessati. Ma fin da ora è possibile fare il punto su una prima “lezione appresa”, anche se in termini generali. Le questioni, in tal caso, girano attorno al Belgio come luogo di generazione del jihad europeo, ai bersagli che sono stati colpiti, al ruolo delle istituzioni coinvolte e all’atteggiamento della gente.Il contesto ampio di riferimento è quello della cosiddetta guerra ibrida: un conflitto pervasivo, diffuso e delocalizzato che caratterizza questa stagione. Si tratta di una nuova forma di guerra, generata dalla medesima logica della globalizzazione che abbiamo competentemente incorporato nella densa rete di relazioni con la quale interpretiamo il sistema della comunicazione, quello della economia e quello della politica, ma che non si è ancora accettato per i medesimi effetti che ha nella ri-modellizzazione dei conflitti. Oggi la guerra non è più confinata su un territorio geografico ma si estende con micro azioni interconnesse che la esportano ovunque, in cui gli attori non sono solo gli uomini in uniforme ma anche gruppi del terrorismo, della criminalità organizzata e via di seguito. Per ragioni politiche questa concetto “invasivo” di guerra ibrida non è stato accettato: la politica che non governa non vuole accettare il fenomeno. Ciò comporta una enorme vulnerabilità nella risposta che è alla base del perpetrarsi delle minacce che si stanno subendo.
In questo quadro generale le condizioni locali possono fare la differenza in termini di rischio. Il Belgio ne è un esempio: uno stato, nel cuore dell’Europa, frammentato da interessi “tribali” che separano in casa le componenti linguistiche ed etniche del Paese, tanto comprese nel loro confronto tra fiamminghi e valloni, da non considerare “belgi” coloro i quali non appartengono alle due grandi fazioni. Così nasce Molenbeek: uno stato nello stato, autonomo e omogeneo, che cresce nel disinteresse tanto da non considerare, di fatto, gli elevati tassi di disoccupazione e disagio che lo caratterizzano perché “sono di un altro Belgio”. E’ quell’ecosistema che diventa l’incubatore privilegiato del terrorismo reclutato da Daesh, e che manifesta apertamente contro le istituzioni – non riconosciute come sue – quando vanno ad acchiappare gli assassini di Parigi. E’ sempre quella frammentazione culturale, politica e istituzionale che rende ancora più difficile il necessario scambio tra attori della sicurezza che si sentono più vicini alla loro “tribù” piuttosto che a una comune “belgicità”.
Il 22 marzo 2016 è stato colpito il sistema della mobilità. Un soft target, anche l’aeroporto in questo caso. Cioè un bersaglio che non è sistematicamente difeso agli accessi per la sua natura pubblica e aperta. Zaventem è stato attaccato ai banconi di accoglienza non in area sterile, oltre i controlli, perché gli aeroporti perseguono l’obiettivo della sicurezza aerea, dunque del volo, non la sicurezza della e nella struttura. Anche se oggi, al terrorismo non interessa far venir giù un aereo ma interessa di più, con minor costo e maggior efficacia, colpire il pubblico che deve usufruire del servizio. Dunque ancora soft target, come per Parigi dove venne colpito il comparto del “divertimento”: una strategia che se messa a sistema moltiplica gli obiettivi in modo terrificante.
Di questi giorni è poi l’avvertimento a “non cambiare i nostri comportamenti” perché la daremmo vinta ai terroristi. Vero, ma che non sia un mantra rituale a sorta di esorcismo per convincerci che le cose non sono cambiate: la situazione è molto diversa rispetto agli ultimi anni e la minaccia in aumento rilevante. Nel contesto della guerra ibrida e delle condizioni ambientali specifiche ci dobbiamo chiedere se non sia il caso di non cambiare i propri comportamenti, se questo cambiamento aumentasse il senso e la realtà di sicurezza. Il mantra recitato evita di acquisire la consapevolezza della drammaticità del momento e, così facendo, incrementa la vulnerabilità di tutti. E’ venuto il momento di considerare tutte le possibilità per vivere una situazione storica difficile e problematica, nel caso anche cambiando alcune nostre abitudini. Non significa darla vinta ma anzi mettersi nelle condizioni miglior per ricostruire la normalità.
L’ultimo leit motiv che suona è quello della intelligence europea. Una mantra ancora più pericoloso perché recitato da chi ha responsabilità della politica. Ma si tratta di un sogno anche se spinto dalle emergenza. Per sua natura l’intelligence risponde alla governance di uno specifico paese, è braccio del governo per gli interessi dello Stato. Come può esistere una intelligence europea in termini di istituzione se non esiste un governo europeo?. Ormai siamo in un a Europa che non si è resa conto che combatte unita o perisce frammentata. Anche lo scambio delle informazioni è problematico, perché da sempre avviene in termini utilitaristici: “cosa mi dai in cambio di…?”. Ancora, pertanto, la necessità di una buona dose di realtà.
Come ho anticipato Bruxelles è interessantissimo per le informazioni che potrà fornire nella sua analisi puntuale.
Ma già la una riflessione sulle condizioni che lo hanno reso possibile e sulla reazione europea mettono alla luce un quadro di grande inconsapevolezza che è fautrice di altri e più grandi rischi.