Gli ultimi attentati a Bruxelles di martedì 22 Marzo testimoniano ancora una volta se ce ne fosse bisogno, dell’estremo fallimento ed evidente vulnerabilità delle politiche sociali, di quelle migratorie e di quelle legate alla sicurezza sia in un contesto nazionale sia in uno europeo.Il terrorismo è prima di tutto un fenomeno sociale e come tale dovrebbe essere gestito: come si può pensare di ingaggiare una lotta al terrorismo (vincendola), trasformando le città europee in un teatro di guerriglia urbana, dimenticando gli aspetti sociologici e sociali che hanno determinato un tale scenario?
L’alto grado di vulnerabilità verso queste forme di terrorismo autoctone e i loro attacchi sono il sintomo più evidente di un disagio sociale e istituzionale pervasivo delle società europee, nonché di una mancata introduzione e considerazione del concetto di resilienza all’interno dei circuiti operativi delle forze dell’ordine e di sicurezza, delle politiche sociali e in generale delle politiche di governance dei territori e delle società.
Anche se non mi sento di concordare pienamente con l’idea che periferia, disagio portino in modo diretto e univoco alla nascita del radicalismo e quindi al terrorismo (come dimenticare l’importanza delle risorse economiche in queste situazioni?) è però vero che certi quartieri di Bruxelles, come Molenbeek, Forest, Koekelberg, Schaerbeek, Anderlecht e Etterbeek sono stati socialmente costruiti e confinati nel loro disagio più profondo: è in queste zone territoriali, che anche una rapida ricerca online (soprattutto blog) conferma, dove si vive il maggiore senso di degrado, abbandono e insicurezza.
La città stessa risente quindi di una probabile errata o solo indiscriminata pianificazione urbana: l’organizzazione dello spazio sociale, pubblico e condiviso influisce notevolmente sulle attività che è possibile sviluppare in certi quartieri ed in altri no. E’ la spiegazione data per esempio dagli studi sui ghetti americani dagli anni ‘50 in avanti, dalla costruzione di quartieri come China Town a New York, facendo emergere inoltre l’effetto di quel fenomeno denominato “catena migratoria” e per il quale grazie ad un passaparola informale (e forse illegale), persone di uno stesso gruppo etnico emigrando, si ritrovano in uno stesso quartiere dando poi vita a sobborghi etnicamente ben definiti.
Si dimentica facilmente che le scelte urbanistiche (spesso discusse a tavolino senza considerazione degli evidenti fenomeni sociali sul territorio) hanno ripercussioni sulla vita stessa di quella società e sulle modalità di convivenza della popolazione[1].
Si è sempre parlato di integrazione, di modelli di accoglienza per gli immigrati, ma si è persa di vista l’idea centrale ovvero che se davvero si vuole combattere questa forma di terrorismo – senza contare le altre aggregate ad esso, la strategia deve necessariamente passare dai fantasmi degli stereotipi e dei pregiudizi, anche razziali.
Gestire il concetto di etnia e le relazioni fra etnie è uno dei compiti centrali della sociologia, come disciplina delle relazioni sociali e culturali.
Per questo motivo si ritiene, che le risposte a lungo termine a quanto è occorso a Parigi e a Bruxelles devono ritrovarsi in una analisi delle relazioni sociali, che sono lo scenario privilegiato ormai delle strategie di guerriglia urbana, alla quale stiamo tristemente assistendo.
Se nei prossimi mesi si dovesse lasciare attecchire nell’opinione pubblica più generale, l’idea che un posto qualunque di una città possa diventare covo e nascondiglio di terroristi ricercati, allora qualsiasi azione di counterterrorism avrebbe raggiunto il suo massimo livello di vulnerabilità ovvero la scarsa credibilità del pubblico che chiede informazioni e ora più che mai protezione.
Le immagini di Molenbeek dovrebbero essere quindi ricontestualizzate in un nuovo assetto informativo, (ri)-creando quella fiducia e quella credibilità fra pubblico/cittadini e autorità/istituzioni, la cui mancanza e vulnerabilità stanno mettendo in crisi, anche sul piano politico, le nazioni e i governi europei.
E questa è solo una prima criticità, che si deve affrontare in un’ottica di terrorism management da una prospettiva sociale, dove quindi le informazioni e i dati raccolti vengano effettivamente verificati in via preventiva e precauzionale sul territorio esposto alla minaccia terroristica o ai suoi rappresentanti.
Questo aspetto si lega anche alla richiesta delle autorità verso la popolazione di informare le istituzioni in caso di notizie utili alla ricerca del fuggitivo, ma coinvolgere la popolazione a posteriori può essere cognitivamente destabilizzante, quanto invece sarebbe più utile una partecipazione in via preventiva.
Qui si evidenzia quindi il problema centrale non solo della Polizia o delle forze di sicurezza belghe, ma di molti altre agenzie coinvolte nel coordinamento delle azioni ovvero come gestire il warning. E questo lo si è visto anche per altre tipologie di rischio: come dimenticare la mancata allerta e conseguente assente preparazione nel caso del terremoto a L’Aquila?
Ma gestire il warning non è un’attività da fare nel momento del pre – impatto: richiede preparazione fra tutti gli attori sociali coinvolti, popolazione, istituzioni e personale operativo.
Diventa quindi essenziale e vitale, tradurre la resilienza nella pratica dell’anti terrorismo attraverso una iniziale predisposizione di protocolli operativi coordinati non solo fra forze dell’ordine e quelle armate, ma anche fra chi i disagi sociali li documenta ogni giorno con la propria pratica lavorativa, come educatori, assistenti sociali, psicologi di comunità.
Perché le ragioni più profonde del terrorismo sono quelle di dominazione e controllo, basti pensare al colpo inferto al sistema infrastrutturale e tutti sanno che le infrastrutture sono sistemi vitali di una nazione; di esercizio di potere sulle risorse economiche; sulla spartizione di territori e quindi anche controllo dell’accesso a determinate fonti energetiche.
E’ come se in Italia si decidesse in modo univoco di trasformare la lotta alla criminalità organizzata in un gioco modello spara-spara urbano senza più nessun confine, pervasivo di qualsiasi spazio o attività: che ne sarebbe della lotta alle organizzazioni criminali autoctone senza le denunce delle persone che continuamente subiscono pressioni, minacce e molto altro, per il semplice fatto di essere outsider in un territorio legittimamente attribuito come spazio di altri, ma del quale non è possibile parlare apertamente perché stigmatizzare (che potrebbe essere tradotto con terminologia più neutra in classificare o categorizzare) non è politically correct.
Nonostante ciò si preferisce definire il fondamentalismo o i processi di radicalizzazione (processi sociali) attraverso codici linguistici e interpretativi propri del simbolismo culturale e le differenze che ne derivano fra culture differenti, trasformando così il campo di battaglia da quello urbano, concreto fatto di grida e odori e al quale stiamo tristemente assistendo, a uno culturale – metafisico, dove lo scontro avviene su un piano di parole e idee, mancando la traduzione operativa dei fatti che poi si verificano nella realtà.
Il rischio sociale maggiore, che si percepisce in riferimento a questa peculiare minaccia è quello di normalizzazione o elevata accettazione del rischio: il che farebbe conseguentemente alzare il livello di esposizione al rischio di una popolazione non preparata, con quindi evidenti e drammatiche conseguenze delle quali siamo testimoni.
In conclusione di queste riflessioni, si giunge ad una proposta sociologica per una visione integrata del fenomeno ovvero si vuole rispondere alla domanda: come la sociologia può contribuire all’analisi, all’interpretazione e alla comprensione del fenomeno terroristico?
Secondo le seguenti linee guida iniziali ovvero:
- sviluppando analisi delle reti in termini di loro resilienza e vulnerabilità
- studiando e determinando le relazioni di potere esistenti fra gruppi sociali, autorità e istituzioni
- prendendo coscienza dei ruoli e delle relazioni esistenti fra le differenti istituzioni coinvolte nella lotta al fenomeno eversivo
- analizzando e focalizzando l’attenzione sulle cause sociali ultime che hanno permesso la nascita e lo sviluppo di pre condizioni anomiche e non considerate
- affrontando il terrorismo nelle sue determinanti e implicazioni sociali, sviluppando con metodo la possibilità di rispondere in modo resiliente e pro attivo ad una minaccia o a un rischio, considerando anche elementi sociologici più generali come gli aspetti legati alle politiche migratorie, alle politiche di pubblica sicurezza, ai rapporti di governance territoriale, nazionale e internazionali
- dando spazio a considerazioni il ruolo sociale e pratico che aspetti culturali, come quelli religiosi o altre credenze in generale offrono in termini di associazionismo, solidarietà, ma anche di conflitti nelle reciproche resistenze e interdipendenze
In accordo a questa prospettiva il terrorism management qui considerato, si configura come punto di incrocio fra le prassi e le metodologie proprie del crisis management, le teorie e le analisi sociologiche evidenziando l’elemento peculiare ovvero la resilienza operativa.[2]
Quest’ultima sarà declinata come driver metodologico ed operativo, per includere all’interno della sociologia del terrorismo l’ottica, gli strumenti, le tecniche e i metodi del crisis management e della disaster prevention, considerando il potenziale, che una fattiva inclusione della resilienza e dei suoi specifici indicatori può fornire in termini di analisi di interconnessioni, di social profiling e di relazioni esistenti fra i soggetti coinvolti.
[1] Le Dossier B è un interessante documentario, in stile utopistico, dove si analizzano le variabili urbanistiche per la creazione di una città di fantasia. Link: https://www.youtube.com/watch?v=4qkSl3NXr-E
[2] Si confronti a questo proposito la proposta già qui enunciata: Attacco a Parigi: Stop calling Europe resilient! – by Barbara Lucini 19/11/2015