Ieri 30 Novembre 2015 si è aperta a Parigi la conferenza mondiale Cop21 sullo stato del clima e del cambiamento climatico. Tutti sanno che questa sarà l’occasione per determinare l’orientamento e la risposta ad importanti sfide future, che riguardano il clima e la salute dell’ambiente, ma non solo.Infatti ciò che deve o dovrebbe preoccupare maggiormente politici e professionisti del settore non è unicamente il raggiungimento di un accordo per limitare l’aumento della temperatura a due gradi, quanto considerare anche tematiche collaterali a questi temi principali, quali per esempio:
- la scarsa sensibilizzazione e la distorta percezione, che le persone comuni possiedono circa gli effetti del cambiamento climatico in termini economici e sociali, le sue cause e che cosa le organizzazioni coinvolte stanno realmente facendo in proposito
- le dinamiche di causa – effetto e il ruolo che l’inquinamento atmosferico e ambientale hanno nel verificarsi di fenomeni atmosferici anomali e i conseguenti disastri naturali (a questo proposito interessanti analisi risultano condotte dalle assicurazioni Munich Re e Swiss Re. In particolare quest’ultima sta ampliando le sue garanzie assicurative anche per le perdite derivanti dall’energia solare o eolica)
- sarebbe utile dipanare la questione circa la delocalizzazione del lavoro in aree in via di sviluppo (Cina e India per esempio), che adesso con un misto fra sorpresa e sgomento si scoprono essere anche i Paesi più inquinanti al mondo. E di questo però non si possono che incolpare i Paesi “più industrializzati” e le loro politiche di esternalizzazione del lavoro operativo, frazionato in altre e molte sedi differenti da quelle per esempio fiscali
- i futuri conflitti per l’approvvigionamento, la distribuzione e l’utilizzo di nuove forme di risorse energetiche, come quelle rinnovabili
- lo spostamento degli assi politici ed economici in un nuovo e possibile assetto geo-politico. Qualora avvenisse una reale concorrenza di risorse energetiche alternative allo sfruttamento dei combustibili fossili e al conseguente petrolio, sarebbe possibile per le zone mediorientali perdere il loro primato nel possedimento della maggiore quantità di giacimenti petroliferi e nella dipendenza creata fra questi Paesi e per esempio l’Unione europea. Inoltre andrebbe anche rivisto il ruolo della loro economia, sommersa e non, basata sui proventi di tale commercio e che alimenta più del 60% del totale indotto dell’OPEC
- i migranti climatici e i profughi ambientali sembrano essere le due nuove categorie identitarie, con le quali – nel quasi immediato futuro – dovremmo interfacciarci. Sarà un fenomeno in crescita, duraturo e come abbiamo tristemente appreso in quest’ultimo anno, i paesi europei in particolare non sono in grado di gestire
La tematica centrale rappresentata dalla relazione fra cambiamento climatico e resilienza politica, economica e comunitaria non risiede unicamente nell’obiettivo dei due gradi, ma ancora di più nel comprendere che la distribuzione di risorse e il loro utilizzo è un facile meccanismo di potere e controllo delle relazioni internazionali, come del resto è sempre stato.
Non dimentichiamo per esempio, che in questi giorni molti giornalisti e non stanno riflettendo sulla effettiva capacità di colpire Is proprio sui proventi dalla “vendita” del petrolio. Va anche ricordato che alcuni rapporti di agenzie giornalistiche citano di un approvvigionamento turco (ovviamente afferente al mercato nero) da parte proprio dei gestori del petrolio targato Is.
Questa pista merita di essere approfondita, perché aprirebbe interessanti scenari futuri di vecchie e nuove interdipendenze fra l’Europa, USA e Medioriente.
Nei giorni scorsi dopo l’abbattimento dell’aereo russo da parte dei turchi si è fatto un gran teorizzare circa i rapporti che la Turchia sta intrattenendo con la Russia, ma non solo.
Se è possibile convenire che la Turchia non sta dimostrando di avere una chiara posizione nei confronti di Is & Co, è vero però la Turchia è da sempre l’anello debole di una già debilitata regione del pianeta.
A parere di chi scrive si sta molto sottovalutando il ruolo chiave che la Turchia possiede sotto molteplici livelli: per esempio che cosa pensare circa la sua futura entrata nell’Unione Europea? Come valutare il suo “impegno” per la gestione dei flussi migratori? E ancora, come interpretare l’incontro fra Angela Merkel e il Presidente uscente (poi rieletto) agli inizi di Novembre?
Ricordiamo che un altro tassello è rappresentato proprio dall’asse Germania – Turchia e da quelle migliaia e migliaia di turchi che fra gli anni ’50 e ’70 sono stati fra le maggiori etnie di provenienza dei loro Gastarbeiter.
Ecco quindi che le scelte energetiche per preservare e proteggere il pianeta, l’ambiente, il territorio e le popolazioni si intersecano al crocevia di altre relazioni strategiche ed economiche, tanto profonde quanto latenti.
Prima ne saremo coscienti e prima potremo agire attivamente.
Perché la resilienza al cambiamento climatico non è solo il ripensamento all’utilizzo di nuove e sostenibili fonti energetiche, quanto una reale valutazione di efficacia di queste risorse anche in termini relazionali ovvero delle relazioni e delle dinamiche che generano fra chi produce, chi distribuisce e chi utilizza.
Nello specifico parlare di resilienza e cambiamento climatico implica:
- una valutazione tecnica dell’impatto economico e governativo delle fonti energetiche alternative prescelte
- una valutazione tecnica di efficacia e resilienza di queste risorse energetiche nella filiera: produzione – distribuzione e utilizzo (come non pensare alla ritorsione russa verso l’Ucraina e la conseguente mancanza di fornitura di gas?)
- una valutazione tecnica di equità dell’accesso a queste risorse. Agli inizi degli anni ’90 alcuni governi europei hanno incentivato (economicamente) il cambiamento di risorse energetiche (il riferimento è all’Energiewende tedesco), ma solo da un punto di vista economico. Quando invece ben sappiamo, che per la popolazione esso rappresenta anche un cambiamento in termini culturali e di stile di vita: è un aspetto da non sottovalutare soprattutto in considerazione di quegli ambienti sfruttati e malridotti, i cui effetti si traducono spesso in immagini tormentate anche della nostra penisola
- una valutazione tecnica degli scenari di rischio, di vulnerabilità e di resilienza, per l’impatto che tali nuove fonti energetiche avranno sul luogo e sulla popolazione che poi le utilizzerà
- l’elaborazione e lo sviluppo – mediante protocolli operativi – di tutte le differenti implicazioni che derivano dalla considerazione e utilizzo di nuove risorse energetiche includendo tutte le parti in causa: cittadini, agenzie governative, ministeri, enti privati, compagnie industriali.
Come si è già sostenuto, non si può essere resilienti da soli: che cosa può fare infatti un cittadino che dota la propria abitazione di pannelli solari, se si permette l’esistenza di industrie che inquinano in modo smisurato?
Contrariamente a quanto si creda quindi, la resilienza ai cambiamenti climatici non è materia solo per ambientalisti, anche le scienze sociali e la possibilità di esplorare percezioni e dinamiche relazionali ne sono coinvolte a pieno titolo.
Inoltre, il cambiamento climatico è in relazione strategica anche al tema della sicurezza nazionale e internazionale, coinvolgendo molteplici livelli e strategie di resilienza, nella speranza di raggiungere tutti – un giorno – un godimento più equilibrato delle energie necessarie alla vita singola e sociale.