Apparentemente il periodo post uragano Katrina e quello post attacchi terroristici del 13 Novembre a Parigi non hanno nulla in comune. L’uno occorso in Europa, l’altro negli Stati Uniti; l’uno un evento principalmente di origine naturale, l’altro di matrice unicamente umana. Invece una questione in comune si può trovare: la resilienza attribuita alle persone per affrontare il post evento e le sue drammatiche conseguenze.Il flyer diffuso a New Orleans rivela una profonda verità, quando afferma: “basta chiamarci resilienti. Perché ogni volta che dici – Oh loro sono resilienti – significa che tu puoi fare qualche cosa di diverso per me. Io non sono resiliente.”
Se questo messaggio letto nel contesto culturale americano, nel dopo uragano Katrina poteva esprimere il malcontento generale per la gestione dell’emergenza, le difficoltà e le disuguaglianze sociali emerse nell’accesso ai servizi di risposta all’emergenza, nel contesto parigino può essere letto come una richiesta legittima di sicurezza e protezione.
Gli attacchi multipli e combinati di venerdì hanno ampiamente dimostrato, che non esiste un’Europa resiliente. Non si può essere resilienti da soli, si può avere più o meno una capacità di risposta adeguata ad una crisi se si possiedono i giusti contenuti di formazione, ma anche il contesto- politico, culturale, sociale- deve possedere principi resilienti. Basta quindi definirsi resilienti, l’Europa resiliente, la società resiliente: sono parole, concetti che purtroppo stentano a tradursi in atti operativi efficaci. La retorica della piazza, gli inni cantati, la commozione, la solidarietà internazionale, le candele, sono tutti i simboli necessari per assicurare l’unità di una comunità, per far rivivere legami sociali e comunitari funzionali al superamento di una simile tragedia, ma non si è resilienti solo così.
La dimensione della resilienza al terrorismo – rischio e attacchi – implica due fattori operativi tipici della gestione del rischio: l’accettabilità del rischio e la sua esposizione.
Per il primo fattore, studi del settore dimostrano che si accetta di correre il rischio quando si è meglio informati sul tipo di rischio e quando attorno ad esso la narrazione è chiara, semplice e costruisce un contesto cognitivo capace di essere una guida, un elemento di orientamento in un momento di instabilità e incertezza. L’accettabilità del rischio è quindi legata alla resilienza, perché si può essere “forti, coraggiosi” solo se è possibile dare un nome ed associare un significato a quello che si sta vivendo. Gli attacchi di Parigi hanno dimostrato che è difficile essere resilienti, se non si accetta nemmeno il fatto di essere in guerra o sotto attacco nel cuore dell’Europa. E qui entra in gioco, l’immagine stessa di guerra. Per molti costituita da trincee, bombe, una dimensione prevalentemente fisica. La guerra ha cambiato volto, ma esiste ancora e ha la forma degli attacchi di Parigi, a Charlie Hebdo, al supermercato kosher. E’ una guerra ordinaria, che sconvolge i fragili equilibri personali, ma è pur sempre una guerra. Quando avremo accettato questa condizione allora potremmo parlare di resilienza.
Invece, il livello di esposizione al rischio è legato anch’esso alle dimensioni di resilienza e dipende appunto da uno stile di vita, considerato ora come ora immutabile, ma ogni guerra prevede per i partecipanti, cambiamenti, a volte anche radicali, del proprio stile di vita, per non parlare delle scelte di consumo. Essere resilienti, tutti – cittadini e governi – implica essere flessibili e adattabili in funzione di uno scopo. Questi attacchi, se considerati nel loro apporto distruttivo di un substrato europeo già di per sé malconcio possono essere una forte spinta verso nuove e più adeguate politiche di sicurezza, che considerino la combinazione strategica di più modelli culturale e operativi di combattimento (gang + ghazi + kamikaze) e politiche migratorie che finalmente si focalizzino su una definizione unanime e condivisa di rifugiato, richiedente asilo, migrante economico e tutte le varianti identitarie migratorie finora presenti.
La resilienza in un contesto terroristico e di gestione della crisi interviene quindi operativamente e metodologicamente su molteplici livelli di analisi, quali:
- comunicativo: che significa un differente scambio di informazioni fra servizi di intelligenze, forze dell’ordine; la costruzione delle immagini e di un percorso narrativo terroristico (simbologia e iconografia hanno un ruolo determinante nella diffusione del terrore); la contro – costruzione di immagini relative alla risposta che i cittadini e i governi colpiti istituzionalizzano nel post emergenza (le bandiere, le candele);
- strategico: la considerazione di un interessante approccio socio- criminologico per le attività di profiling è fondamentale, come però risulta essere importante includere in questa prospettiva anche la resilienza in termini di capacità di adattamento. Se il profiling fornisce elementi chiave per la ricostruzione della personalità dei terroristi è altresì vero, che bisogna intendere il terrorista inserito in un sistema o processo dinamico di relazioni che meritano attenzione per la loro plasticità e flessibilità di adattamento al contesto. (Riferendosi qui in particolare alle dinamiche di reclutamento e formazione di futuri combattenti). Sarebbe quindi importante per le attività di indagini poter disporre delle dimensioni singole delle differenti capacità adattive, in modo da proporre una immagine completa e in movimento della persona/e – target;
- tattico: si è aperto un ampio dibattito circa la classificazione di questi attentati e la loro organizzazione, focalizzando poi l’attenzione sulla forma del commando. Sembra invece non essere stata considerata la forma delle gang, che risulta essere anche il tema trattato in uno degli ebook lanciati in rete alla fine di Giugno di questo anno. In quel testo si incitava proprio a colpire non obiettivi tradizionalmente targati come sensibili, ma luoghi comuni, della vita ordinaria di gran parte della popolazione. Inoltre sono presenti tutti gli elementi che caratterizzano una gang di strada: la giovane età dei componenti (quasi coetanei delle loro stesse vittime, fattore anch’esso tipico di alcune gang di strada, discorso a parte meritano invece le gang dei Latinos), le modalità di attacco e i luoghi degli attacchi (luoghi pubblici, che non rimandano a particolari forme di rappresentanze istituzionali), il coordinamento delle loro azioni, la specializzazione e l’accrescimento della loro organizzazione per massimizzare le loro opportunità di sopravvivenza e raggiungimento degli obiettivi. E questa è propria una tipica dimensione di resilienza organizzativa. Parlando di organizzazione terroristica, le analisi dovrebbero vertere anche sulla loro capacità adattiva e sull’interoperabilità delle singole dimensioni, che caratterizzano questa capacità: comunicazione, apprendimento e formazione, diffusione della cultura organizzativa, determinazione della strategia più adeguata, raggiungimento degli obiettivi prefissati;
- operativo: può essere identificato come il segno distintivo dei gruppi terroristici in quanto, su questa dimensione convergono in modo armonico ciò che è stato previamente pianificato, anche considerando eventuali scenari critici e le possibili risposte di mantenimento e preservazione del gruppo stesso. In questo contesto però l’utilizzo dei kamikaze massimizza ampiamente il raggiungimento dello scopo, il rafforzamento del gruppo più ampio e converge la resilienza massima verso l’organizzazione centrale;
- relazionale: da questa prospettiva sembrano emergere collegamenti fra Parigi e Bruxelles ovvero il cuore dell’Europa. Per questo motivo sembra importante includere nelle modalità di collaborazione alla lotta al terrorismo anche delle azioni combinate di profiling per le organizzazioni terroristiche
Queste sono solo alcune delle prospettive che attribuiscono un ruolo strategico e operativo ai fattori di resilienza nella lotta al terrorismo, considerando però che l’attenzione non dovrà essere unicamente focalizzata alla resilienza come risposta al terrorismo, ma alle capacità adattive dei gruppi terroristici e alle nostre capacità predittive includendo la resilienza come principio operativo per la pianificazione alla lotta al terrorismo.