Negli ultimi tempi in Italia sono state avviate molte discussioni, circa l’utilizzo di Twitter o Social Media in caso di crisi. Iniziative lodevoli, perché pongono al centro della discussione il rapporto fra persone, comunità e nuove tecnologie e cercano di orientare risposte adeguate in contesti critici. Le alluvioni che hanno da poco flagellato il sud Italia e le nuove scosse sismiche nella zona dei Campi Flegrei, nel Messinese e in altre regioni italiane pongono però tutt’altra questione.L’utilizzo di nuove tecnologie è sempre legato alla loro effettiva capacità di utilizzo. Questo significa due cose: la necessità di “formare” i cittadini per essere in grado di interpretare correttamente il messaggio ricevuto e in secondo luogo predisporre questa attività in modo da considerare i gap culturali, sociali e linguistici che possono emergere. Perché si sa che ogni evento critico, ogni emergenza è lo specchio e la rappresentazione più dettagliata del tessuto sociale colpito.
Un altro punto importante è l’accesso a questi servizi, non solo in termini pratici e tecnici, soprattutto in considerazione delle fasce più vulnerabili delle popolazioni, quelle cioè che paradossalmente in caso di crisi avrebbero più bisogno di aiuti e assistenza, ma non sono in grado, per i più svariati motivi, di accedervi. Negli Stati Uniti la questione ha sollevato un’ondata di dubbi, circa l’effettiva utilità di questi nuovi strumenti, ravvisando in loro delle mancanze basilari in termini di diritto di accesso alle informazioni durante eventi critici. Non bisogna inoltre dimenticare che questi sono “strumenti operativi” cioè l’ultimo passaggio di un reale e resiliente processo di valutazione dei rischi e del loro impatto su un tessuto sociale, che a volte sembra quasi sconosciuto.
Un altro punto importante, che merita riflessioni future è relativo alla fase durante la quale intervengono questi strumenti, ovvero la risposta all’emergenza: prevenzione e preparazione vengono poco o nulla considerate. Perché? Perché è molto difficile pianificare una risposta all’emergenza in una società multietnica e multilinguistica, dove anche l’interpretazione e la rappresentazione dei rischi chiedono una considerazione ben più approfondita degli studi cognitivi sulla percezione del rischio degli anni Ottanta. Perché la prevenzione e la previsione richiedono risorse economiche, che forse se tutto dovesse andare per il meglio, sarebbero utilizzate per nulla, ma quel nulla rappresenterebbe la sicurezza di migliaia di persone.
Sarebbe quindi molto più utile e resiliente, perché adeguato, partire da una seria riflessione circa lo stato attuale delle cose, per esempio la dilagante mancanza nei piani comunali di prevedere anche le informazioni socio – anagrafiche dei cittadini presenti sul territorio e le caratteristiche sociali della popolazione stessa.
Resilienza, fuori dal suo significato psicoanalitico significa anche partecipazione e democrazia, in uno spazio sociale e istituzionale che deve essere garantito: è necessario conoscere le caratteristiche delle persone e delle comunità che vivono a rischio, prima di proporre loro (si spera) l’utilizzo di uno strumento che per molti può essere ancora estraneo. Rimane quindi la necessità di ripensare, in un’ottica formativa e comunicativa, anche alle fasi di prevenzione, previsione e alla cruciale questione se dare o no l’allerta, nella consapevolezza delle ricadute e delle responsabilità che questa comporta.
Consiglio a tutti di leggere l’insuperabile reportage di Qian Gang, Il grande terremoto cinese, circa il terremoto di Tangshan occorso nel 1986.
Un estratto: “ A quel tempo non c’era in tutto il paese un solo nome che attirasse su di sé tante ingiurie e maledizioni quante ne attirava qui quello del Dipartimento di Sismologia. L’indignazione della gente di Tangshan ribolliva di una furia vulcanica. Il Dipartimento di Sismologia era colpevole di negligenza e tradimento. Duecentoquarantamila essere umani erano morti di una morte ingiusta, lasciando dietro di sé decine di migliaia di orfani e invalidi. Odio e furore vennero disperatamente rigurgitati contro questi scienziati. La gente di Tangshan li accerchiò, pretendendo da questi “esperti” di terremoti un risarcimento per tutto quello che avevano perso. […] Ma la situazione si era completamente rovesciata. Non c’era stata nessuna previsione. Il disastro si era abbattuto senza preavviso. La fede un tempo riposta nei sismologi si trasformò da un giorno all’altro in ostilità.”
Queste parole sono purtroppo un’eco lontana nel 1986, ma che riportano tristemente alla memoria i fatti più recenti accaduti dopo il terremoto a L’Aquila e la necessità di rivedere i piani di comunicazione delle crisi anche in fase preventiva, pur conservando la necessità di accettare i limiti tecnologici e scientifici nella previsione di eventi naturali.
Infine, se di resilienza si vuole parlare è bene ricordare che essa è un atteggiamento che si costruisce faticosamente giorno dopo giorno, sulla fiducia reciproca in un rapporto democratico fra cittadini e istituzioni. Infatti per quanti lo credano, non basta l’aggettivo “resiliente” posto davanti al nome di una città per farla diventare tale, quando tutto il rapporto fra cittadini e istituzioni è quotidianamente minato da pratiche scorrette e atti illeciti.
Il banco di prova di queste riflessioni saranno i prossimi eventi critici, per i quali non si poteva dire che non si sapeva, ma per i quali invece si è scelto di non agire in modo resiliente.