Gli atti terroristici di matrice IS ai quali stiamo tristemente assistendo, per lo più in modo impotente dall’inizio di questo anno sono di certo fenomeni e processi sociali, oltre che comunicativi.
Sono processi sociali, perché pongono in essere dinamiche culturali e collettive, che non sono attribuibili a una logica esclusivamente attuale: il percorso di questa violenza e di questi atti è stato minuziosamente costruito nel corso degli ultimi 30-40 e forse più anni. C’è poco quindi da stupirsi rispetto a queste ondate di violenza, alle minacce, agli attentati terroristici e alle atroci torture sui bambini (documentate da un recente rapporto delle Nazioni Unite), vittime, ma anche tragicamente esecutori (come dimenticare il bambino kazako che spara ai due prigionieri russi) e purtroppo sempre più “spettatori partecipanti” di questo terrorismo globale, che ora prende la forma di un “terrorismo ibrido”, nel quale atti osceni e crudi, lasciano il posto ad una comunicazione via web.
Secondo alcune teorie sociali, la realtà che viviamo quotidianamente è la costruzione di una immagine collettiva alla quale attribuiamo un senso, sia in termini cognitivi sia comunicativi, più o meno condiviso. E questo è proprio quello che la propaganda del terrorismo di stampo islamico sta facendo: ci sta servendo immagini, video ai quali possiamo generalmente attribuire un senso condiviso di raccapriccio, ribrezzo, ma che possiedono un fine latente che è quello di insinuarsi nell’immaginario collettivo e forse, si spera di no, creare quell’effetto suspense che ci incolla alla Tv o meglio al web per vedere come andrà a finire.
Diventa quindi possibile definire il terrorismo come pratica sociale e identificarlo con i processi di socializzazione primaria (in famiglia si impara o si dovrebbe apprendere come comportarsi con gli altri più vicini a noi) e secondaria (dalla scuola al gruppo dei pari si apprende come relazionarsi con diverse tipologie di persone).
Gli aspetti più interessanti di queste teorie applicate all’analisi del terrorismo di matrice islamica sono i seguenti:
- i processi di socializzazione subiscono dinamiche di stress e trauma in relazione all’esperienza dell’immigrazione. In questo semplicistico e riduttivo binomio, -terrorismo uguale immigrazione- si trovano i punti di avvio per una riflessione più compiuta. Perché se è vero che il terrorismo di stampo islamico viene sostenuto da una specifica visione religiosa che influisce su tutti gli ambiti della vita quotidiana, individuale e collettiva, è altrettanto vero che i fenomeni dei convertiti aprono nuove linee di ricerca e analisi. In questo quadro sarebbe interessante poter meglio dettagliare i punti di integrazione o meglio “contaminazione” che sono stati all’origine di tale fenomeno, sempre più in espansione. Alcune ipotesi, ma ribadisco solo tali, potrebbero indirizzare verso vissuti di marginalizzazione, esclusione sia di una parte che dell’altra. E’ quello che per certi studiosi viene a delinearsi come una mancata integrazione o socializzazione in uno specifico contesto sociale
- un altro punto critico che andrebbe approfondito è se queste adesioni sono volontarie o coercitive. Sappiamo poco o quasi nulla (data l’evidente difficoltà nel reperire tali informazioni) di come avviene effettivamente questo percorso, non solo dal punto di vista psicologico per il quale molteplici teorie potrebbero essere considerate, quanto da un punto di vista sociale, di un agire determinato anche dalle azioni che vediamo come nostre, ma riflesse da altri
- se si riflette circa il nuovo ebook di IS “The Islamic State” è impossibile non notare come il processo di socializzazione secondaria sia presente in modo pervasivo in tutto il contributo.
Le questioni, a mio avviso più interessanti, sono la struttura generale dello Stato, organi di governo militari e strategie di training per i soldati, ma anche l’attenzione ad una parte di “welfare”, che forse da una prospettiva occidentale non mi sarei aspettata. E’ possibile pensare che questa comunicazione sia stata pensata al fine di reclutamento, toccando scenari conosciuti – sanità e scuole – in un quadro generale dove possibili reclute occidentali possano trovarsi a loro agio.
Un confronto con le politiche, le tattiche e le strategie comunicative utilizzate nel corso delle Grandi Guerre e sotto il regime tedesco potrebbero fornire risultati importantissimi, nella comprensione dei comportamenti influenzati del pubblico e nelle logiche comunicative e di governo sottostanti. Scomodare la storia in questo caso potrebbe darci chiavi di letture sicuramente relativizzate al periodo storico, ma anche elementi di metodi comunicativi, che a mio modo di vedere stanno sfuggendo all’attenzione di chi invece dovrebbe considerarle: focalizzato unicamente al cambiamento di mezzi e tecniche di produzione, come per esempio il passaggio dalla radio al web.
Tutte le guerre, gli attacchi terroristici in generale sono atti comunicativi di per sé: si impartiscono ordini, si scambiamo informazioni, si usano spie o infiltrati per conoscere dati circa le strategie nemiche. Pensiamo al lavoro di Alan Turing (al cinema in questo periodo) di decriptazione del codice comunicativo tedesco: da lì è stato possibile conoscere tutto il “sistema guerra” ideato.
E’ il semplice possesso delle informazioni che genera potere: un potere però che deve essere intelligentemente utilizzato nei confronti del pubblico e nella gestione di rischi, crisi, guerre.
Un potere che deve essere al servizio, e sottolineo servizio, di chi ascolta o condivide, e non orientato con scopi altri, che non siano quelli informativi o di gestione operativa.
A questo punto siamo certi di poter parlare di counternarratives? Tutto quello che i media stanno ultimamente diffondendo riguardano in parte stereotipi datati, assodati, che non fanno altro che porre due identità collettive in contrapposizione l’una con l’altra – noi i buoni, loro i cattivi- mentre invece abbiamo come controparte un’organizzazione terroristica globale che si pone al nostro livello e parla secondo i nostri registri attraverso una delle cose più importanti per il governo delle Nazioni: la creazione di uno Stato, come IS. Ci sono però alcune specificità rispetto a questo sistema. IS come stato nascente sembra vivere meno stati di anomia e dispersione come gli attuali Stati occidentali: non siamo in presenza di società o identità liquide, disgreganti, quanto di individui e collettività ben costituiti e formati da un punto di vista personale e organizzativo, unificati attorno ad una visione solida, condivisa e legittimata.
Il potere in questo caso è legittimato senza nessun dubbio rispetto alla sua validità, vivendo meno quegli stati di pervasività e vulnerabilità più tipica dei nostri attuali governi.
Così come tipica è la con-fusione di ruoli e funzioni che impèra su quell’insieme disorganizzato di entità, comunità che sono diventati i post moderni stati occidentali: abbiamo conquistato la libertà, tante libertà, la possibilità di partecipare attivamente alla vita di governo (anche se con riserve quanto più evidenti), siamo stati portatori della genesi di fenomeni come l’associazionismo o i vari approcci grassroots, insomma ci siamo fatti “contaminare” da idee, valori, bisogni che a volte erano nostri e a volte no, ma forse in questa partita il sistema sociale di governo come unità si è in parte delegittimato, in favore appunto di libertà sempre crescenti.
Sembra sempre più che i processi comunicativi e le loro pratiche siano in linea con una logica di radicalizzazione ben congeniata, dove l’immagine che loro stanno veicolando (e i media in questo contribuiscono in modo preponderante), rispecchia perfettamente ciò che noi vogliamo o siamo in grado di concepire. La strumentalizzazione dei bambini è un esempio: siamo abituati a concepire i bambini come vittime per sè in qualsiasi situazione, ora sappiamo che possono avere un ruolo influenzato anche di partecipanti attivi. Altro simbolo è l’utilizzo del giornalista Cantlie come “narratore privilegiato” di luoghi inavvicinabili per la gran parte del pubblico, che ascolta e comprende questa immagine patinata e pulita, perché è così che l’informazione deve essere veicolata: senza imperfezioni e curata secondo un’ottica occidentale. Anche questa è guerra, seppure comunicativa e a colpi di video e fotografie: perché mischiare le carte e creare disordine cognitivo sono strategie militari già note e utilizzate. Ecco quindi che ritorna in questo contesto, la necessità vitale di creare una resilienza e una capacità critica- analitica nel pubblico che ascolta e si informa dai media, ma ritorna anche l’attenzione circa i media che devono imparare a gestire il flusso delle comunicazione non in funzione di un audience o dei dati auditel, ma in relazione alla loro capacità di determinare eventi, che in contesti di crisi e guerra possono avere un’importanza strategica e fondamentale per i loro esiti.
La mia analisi sostiene anche che per combattere questa tipologia di terrorismo, oltre alle armi tradizionalmente utilizzate per la garanzia di supremazia, la difesa del territorio e della sicurezza fisica, ci sono strumenti ben diversi, ma ugualmente potenti se considerati, per costruire resilienza individuale e sociale, soprattutto fra i giovani (dato che questo sembra il target preferito per il reclutamento) attraverso l’attuazione delle più mirate e studiate politiche sociali, finalizzate alla lotta alla radicalizzazione.
A questo proposito un recente documento della Commissione Europea elabora una proposta articolata, da un lato circa la possibilità e necessità di creare resilienza nel pubblico (e quindi anche nei potenziali futuri reclutati) evitando propaganda finalizzata alla radicalizzazione; dall’altro sviluppando attività educative e di formazione per i giovani tese ad evitare visioni violente ed estremiste.
Perché anche – e forse soprattutto- l’educazione è un mezzo per combattere il terrorismo, come processo sociale violento di forme condivise e socializzate di radicalizzazione.