La holding del jihad globale si basa su un circuito ben collaudato riguardante vari aspetti. L’attività di finanziamento risulta segnata da due strategie: quella del money laundering, sicuramente la più conosciuta, basata sui proventi derivati dall’attività criminale, di seguito ripuliti per poi essere integrati nel mercato legale e quella del money dirting basata sulla raccolta illecita dei fondi da parte dei terroristi per poi occultare la finalità ultima dei vari movimenti di capitali ed impiegarli in attentati terroristici.
Diversi sono i canali per il finanziamento che vanno dalle cospicue elargizioni di Arabia Saudita, Kuwait e Qatar al riciclaggio del denaro attraverso il Kenya, il Libano, la Svizzera, la Tanzania, lo Yemen, il Pakistan. A ciò va aggiunto il traffico di armi attraverso i Balcani e la Svizzera; il traffico di diamanti attraverso l’Olanda, il Congo, il Libano, il Pamir e la Sierra Leone; la prostituzione dai Balcani all’Europa Occidentale, e infine non meno importanti i fondi di investimento tra Londra, Dubai e Singapore, conti bancari di prestanome e il commercio della droga attraverso l’Afghanistan lungo la direttrice dell’oppio e i diversi circuiti del narcotraffico mondiale. Particolare attenzione è posta dall’Intelligence italiana (vedi ultima Relazione al Parlamento)[1] al trasferimento di denaro con il sistema hawala in cui si richiede l’intervento di un operatore hawaladar (broker) nella località di partenza ed in quella di destinazione. L’interesse verso il crimine organizzato e il terrorismo può ovviamente produrre hawaladar specializzati in compensazioni di denaro contro armi, operazioni che ottimizzano il matrimonio fra interessi fondamentalisti e interessi strettamente criminali.
Ma il terrorismo jihadista ha bisogno soprattutto di basi logistiche per la produzione di video e soprattutto di documenti falsi (passaporti o carte di identità) che vengono utilizzati dai futuri attentatori. In questo ultimo settore si distinguono particolarmente Italia e Spagna.
In Italia, nella regione Campania è molto diffusa la presenza di algerini legati al Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento nato da una scissione all’interno del G.I.A. (Gruppo Islamico Armato). Si tratta di un’organizzazione legata al terrorismo con diramazioni in tutta Europa, dedita principalmente al traffico internazionale di documenti falsi, con collegamenti con le aree di Vicenza, Milano e soprattutto Santa Maria Capua Vetere.
La genesi di queste cellule islamiste in Italia fondate su base etnica risale agli anni Ottanta-Novanta. All’inizio degli anni Novanta si stabiliscono nel nostro paese gruppi di terroristi algerini. Essi utilizzano l’Italia come base logistica e per fare proselitismo ma sono prevalentemente specializzati nella fabbricazione di documenti falsi, per gli altri gruppi, per se stessi, per Al-Qaeda.
I terroristi di matrice islamica nel nostro paese vengono in genere da ceti borghesi medio-alti. Come copertura fanno gli imprenditori, i commercianti, gestiscono aziende di import-export, call center. Ma ci sono anche professori, studenti, tecnici specializzati, artigiani, elettricisti, semplici manovali, disoccupati. Ufficialmente riescono a mettere in piedi anche attività imprenditoriali autonome, come è stato nel caso di un gruppo milanese che aveva creato una società di servizi di pulizia a Gallarate – salvo poi scoprire che non svolgeva alcuna attività.
Cellule importanti negli anni sono state scoperte a Milano, Roma, Torino, Napoli dove ci sono state perquisizioni, arresti, processi ed anche condanne. Nel febbraio del 2002 a Milano si svolse il processo a carico dei componenti della cellula tunisina del Gruppo salafita per la predicazione ed il combattimento, cellula operativa in Lombardia. Vennero inflitte in totale quattro condanne: cinque anni di reclusione per Muhtar Bususa e Al-Sayyid Sami bin al-Humays, “Omar l’emigrante”, ritenuto il capo della cellula. Come sottolineato dal pubblico ministero di Milano Stefano Dambruoso, titolare dell’inchiesta, fu la prima sentenza in Europa che, dopo l’11 settembre, riconobbe una cellula europea che aveva collegamenti con il Fronte internazionale islamico di Osama bin Laden.
Il circuito jihadista in Italia ha origini come visto pregresse e si caratterizza per i seguenti aspetti:
- In un primo momento ci si incontrava in garages o seminterrati poi si è passati ai centri di culto islamici che in Italia sono letteralmente cresciuti in numero esponenziale non essendo regolamentati a livello normativo.
- Certo gran parte del mondo musulmano italiano rinnega gli estremisti e tende ad isolarli. Il problema spesso è il proselitismo operato dagli imam, in parte improvvisati ed in parte costruiti ad hoc, che diventa l’ingrediente ideologico che anima i radicali islamici di natura jihadista. Proselitismo soprattutto di carattere telematico sempre più in evoluzione.
- Certamente l’Italia negli anni passati è stata un punto di passaggio jihadista privilegiato vedi per la guerra in Bosnia negli anni Novanta dove molti musulmani “finti bosniaci” ingrossarono le fila del battaglione afgano-bosniaco guidato da Abu Abdel Aziz Barbaros.
- Infine la modalità organizzativa delle cellule del terrorismo jihadista che ricalca i profili di organizzazioni malavitose italiane da Cosa Nostra alla Camorra. Si va dalla capacità di intrattenere rapporti ambivalenti con i poteri legali a link di collegamento più importanti che spaziano dal narcotraffico al riciclaggio di denaro.
- L’Italia continua a offrire il suo supporto nella falsificazione di documenti e come base logistica.
[1] http://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/relazione-annuale/relazione-al-parlamento-2013.html