La domanda ricorrente, in questi ultimi mesi, riguarda la nuova forma che il terrorismo islamista potrà prendere, dando per scontato che sarà un attore significativo nel perdurante conflitto. Proviamo dunque, se non a rispondere, a mettere sinteticamente in fila i pezzi di un puzzle del quale non si ha la visione finale.
Il primo elemento è quello di scenario offerto dalla Guerra Ibrida, una sorta di contorno e cornice del nostro puzzle.
La Guerra Ibrida è una guerra diffusa, pervasiva e delocalizzata, un conflitto che va ben oltre la definizione di asimmetrico, per collocarsi nell’incertezza della guerra senza regole condivise tra i competitors che sono eserciti, terroristi, insurgens, freedom figthers, media, NGOs, …: giocatori diversi che entrano in campo per “sbranarsi” senza condividere alcunché. Inoltre, si tratta di una forma di guerra fortemente correlata alla dimensione reticolare della globalizzazione, dove il sistema fitto di interdipendenze mette in relazione necessaria tutti gli elementi e dove, in prospettiva storica degli ultimi anni, l’unico attore capace di sfruttare questa dimensione reticolare globale è stato proprio Daesh: diffuso in 36 paesi con 40 gruppi “coordinati” rispetto alla missione.
Senza considerare la Guerra Ibrida come l’elemento fondante di scenario non si può comprendere il terrorismo degli ultimi anni. Ma d’altra parte è solo il rifiuto di questo scenario che “salva i politici” dando loro la possibilità di non parlare di Terza Guerra Mondiale in corso: una conseguenza inevitabile qualora incorporassimo il terrorismo quale attore del conflitto, come sostiene la definizione di Guerra Ibrida. Il non accettarla permette di considerare in forma tradizionale quanto accade in Medio Oriente, in Centro Asia o in Corno d’Africa, dove abbiamo “azioni di guerra” al contrario di un’Europa (da Parigi in poi) afflitta da “atti di terrorismo”. E’ solo l’affermazione di questa differenza che permette di non affrontare la narrativa insostenibile, nei confronti dei propri elettori, della terza Guerra Mondiale in corso.
Il secondo elemento è la viralità di Daesh: un esempio di terrorismo innovativo e opportunista che ha saputo sfruttare tutte le vulnerabilità del suo nemico. Ormai Daesh sta per finire, almeno nella forma storicizzata nata il 29 giugno 2014, e ha intrapreso un cambiamento – a cui è stato costretto – di cui i segni si sono manifestati a partire dall’attacco nella Rambla a Barcellona (17 agosto 2017), seguito immediatamente a ridosso da quelli a Turku, Surgut, Brussels. E poi di nuovo, a un mese di distanza, con l’attacco a Londra (15 settembre 2017), seguito ancora immediatamente dagli attacchi a Parigi, Chalon sur Saone e Birmingham. Una serie di attacchi condotti da aspiranti disillusi dal non aver potuto andare a combattere in Siraq, orientati a comportamenti virali e imitativi da una propaganda efficace per la diffusione delle modalità operative semplici proposte, non tutti convinti o motivati da una comune scelta religiosa radicale. Le modalità degli attacchi da agosto in poi riguardano attivazioni di “singolarità” sulla base di informazioni e formazione a cui si è provveduto nei mesi precedenti. A cui si è data ulteriore forza proprio da fine agosto con le edizioni di Kinghts of Lone Jihad, pubblicato in quei mesi a un ritmo circa settimanale come manuale del jihadista che in pochissime pagine, tre o quattro, suggerisce metodi semplici di attacco, passando dall’uso del veleno ai coltelli, ai furgoni, all’uso del fuoco e degli acidi, al provocare incidenti d’auto: suggerimenti mai declinati in procedure specifiche ma, piuttosto, in semplici descrizioni di azioni già presenti nei cartoni animati di Willy Coyote.
Si tratta di azioni che ciascuno ha nell’immaginario, dunque semplici, ripetibili senza necessità di programmazione, di scarsissima efficacia in termini di vittime ma con alto ritorno comunicativo; soprattutto se esprimono la loro capacità virale, cioè il loro potere imitativo, che favorisce il dipanarsi di una catena di attacchi. Il medesimo manuale invita alla cautela nella azione, ben lontano dal proporre l’immolazione del terrorista che deve poter agire ancora, e non sottolinea alcuna necessità di rivendicazione dell’atto, perché esso è auto-evidente nella interpretazione del nemico e la platea dei social non tarderà ad appropriarsene spontaneamente. L’efficacia della minaccia di Daesh è tanto sedimentata tra le sue vittime che ormai è ragione a-specifica di ogni emergenza/attacco, come il primo attentato jihadista in Italia insegna: 1 morto e 1527 feriti in Piazza San Carlo a Torino, durante la finale di Champions League, il 3 giugno 2017.
Questa viralità, che infetta i comportamenti quotidiani con la facile violenza promossa dall’imitazione che trova ragione nell’effetto che cerca e non nella motivazione che lo genera, è il risultato di un efficacissimo uso della comunicazione da parte del Califfato. Così efficace nelle sue strategie da essere spesso confuso con gli artifici tecnologici che lo hanno supportato: la confusione tra mezzi e fini è stata infatti ricorrente nelle analisi di questo terrorismo. Per esempio quando l’innovazione di Daesh, fin dall’inizio identificata nella comunicazione, è stata indicata nella qualità del prodotto e nella capacità della post produzione e non nella sagace regia che ha organizzato una comunicazione complessa, progettata e mirata a un pubblico segmentato, attraverso almeno quaranta agenzie diverse, ma tese al medesimo obiettivo. O ancora, e peggio, quando si è confusa la capacità del terrorismo con la capacità di uccidere, non accorgendosi che Daesh non era efficace – contro i suoi nemici – per il numero di morti che generava, ma per le modalità con cui produceva la morte: non è la morte che fa più paura, ma le modalità con le quali essa viene procurata. Non per nulla queste costantemente messe al centro della narrativa del terrore con una documentazione spietata del lungo e drammatico tragitto che conduceva all’atto finale, banale in sé ma terribile per come raggiunto.
Un segno significativo del cambiamento e delle criticità affrontate da Daesh, dunque, si ritrova oggi nella difficoltà di comunicare con i medesimi standard qualitativi e strategici del passato.
Questi ultimi mesi del 2017 sono stati segnati da una comunicazione meno intensa dell’usuale, ma soprattutto reattiva, ripetitiva, evocativa e appiattita sulla immagine che il pubblico ha di Daesh, non articolata secondo la regia a cui il Califfato ci aveva abituato, indirizzando il suo pubblico. I banner si susseguono, ben fatti come li potrebbe fare un giovane avvezzo alla comunicazione digitale, firmati da autori emergenti che si autolegittimano con il successo del singolo prodotto lanciato attraverso i social e che utilizzano una comune biblioteca digitale (per esempio le immagini dei “testimonial” si ripetono) che comincia a strutturare un linguaggio che diventa comune e, dunque, utile a mantenere una possibilità di identità condivisa in questi mesi di assenza del Grande Regista.
Gli stilemi del Califfato si ritrovano anche in questo periodo di buffer autunnale, in cui la Regia ha affidato la comunicazione a una maggiore autonomia degli autori, che si sono formati sul campo della comunicazione di cui finora erano destinatari, avviluppati nel processo che li ha condotti ha essere i prosumer del Califfato con meno rigore programmatico, dunque, ma con grande efficacia. Infatti, dove è finito il Grande Regista che utilizzava una pluralità di canali e di prodotti per colpire un target segmentato per promuovere coerentemente il medesimo messaggio/obiettivo? Probabilmente, nei mesi di autunno 2017, egli è in crisi a Mosul e Raqqa
Il terzo elemento è certamente la perdita del territorio: Mosul e Raqqa sotto scacco a settembre e ottobre richiedono al Califfato il massimo sforzo, soprattutto impediscono alle abituali major della comunicazione di preoccuparsi dei loro prodotti. La comunicazione ufficiale di Daesh ci aveva abituato a 800/1000 lanci per mese: dopo la perdita dei territori restiamo su un range di circa 300 lanci mese, per tornare a circa 650 solo a gennaio 2018. Fanno eccezione alcuni prodotti, come Flames of War II e Inside the Khilafa che sono lanciati nel consueto ottimo standard della “comunicazione internazionale” di Daesh perché non vengono prodotti nei territori sotto attacco. Per il resto le narrative del Califfato cadono nel buio, scomparendo la rivista Rumiya, silenziandosi la radio Al-Bayan, entrando in crisi Amaq news agency, il principale organo di informazione che mostra un trend di azione diverso rispetto alla situazione precedente. Se infatti Amaq ha sempre continuato a rivendicare attentati terroristici avvenuti all’interno di altri territori, come Somalia, Kyrgystan, Afghanistan, Pakistan, Libia, Russia, tuttavia Amaq si è quasi disinteressata della rivendicazione degli eventi avvenuti in occidente. Per esempio, in maniera del tutto inusuale, l’attentato di Manhattan (27 ottobre 2017) viene rivendicato attraverso il periodico settimanale Al-Naba, un canale di informazione interno al territorio siriano-iracheno, l’unico a essere diffuso anche in formato cartaceo all’interno delle roccaforti del Califfato. Il flusso di informazioni a cui eravamo abituati, veicolato da Amaq, si riduce dunque sensibilmente fino a dicembre 2017, soprattutto in lingue diversa dall’arabo, anche trasmesse via Telegram, indicando che la perdita del territorio ha avuto un immediato effetto negativo sulla struttura organizzativa della comunicazione del Califfato. Solo a gennaio, la ripresa quantitativa della comunicazione mostra una chiara volontà di recupero da parte di Daesh che, anche attraverso la divulgazione di informazioni provenienti da altri campi di guerra in cui è impegnato, è deciso a mostrare la sua permanenza sul terreno e la volontà di non ridursi a uno stato esclusivamente virtuale, come alcune interpretazioni facevano dapprima pensare. Insomma, Daesh vuole tornare e restare un attore sul campo reale della Guerra Ibrida.
La questione della perdita del territorio da parte del più significativo, meglio organizzato e ricco gruppo terroristico degli ultimi decenni pone una chiara domanda: “Daesh aveva previsto questa sconfitta sul campo?” La risposta è cruciale perché da essa dipende l’interpretazione di questi mesi, spostandosi essa da una lettura reattiva piuttosto che strategica.
Il passato evidenzia che Daesh non ha mai agito senza una strategia, magari ad alto rischio “da giocatore di poker” eppure sempre con una idea che escludeva la casualità: non penso che Daesh dunque non avesse una way out rispetto alla prevedibile situazione nella quale sarebbe andato a finire. Era inevitabile e solo questione di tempo la sua distruzione sul campo iraqeno siriano.
In tal senso, e in estrema sintesi, questa strategia di uscita finalizzata a sopravvivere come attore del conflitto e a continuare la lotta del jihad radicale, non poteva che esprimersi organizzando la resistenza attraverso nuclei di irriducibili disposti a morire sul posto (martiri, testimoni della purezza della causa), insieme a una parte di combattenti della quale si potesse negoziare la fuoriuscita dalle aree di guerra e promuovendo un deflusso non di rientro (cioè non verso i paesi di origine dei combattenti) ma verso o aree del futuro jihad (soprattutto asiatiche) o verso paesi occidentali dove i returnee potessero agire da attivatori (non da autori) dei delusi che avrebbero voluto partire, ma che si era provveduto a fermare prima.
Questo orientamento prioritario giustifica un buco comunicativo dovuto alla “necessaria distrazione organizzativa”, ma che è stato in parte colmato dalla reattività sopra descritta, che si è espressa sia nei comportamenti imitativi conseguenti gli attacchi maggiori sia nelle comunicazioni virali, conseguenza della struttura promossa dai media del Califfato soprattutto nell’ultimo anno.
Il quarto elemento è la ridefinizione delle alleanze, un gioco delle parti tra chi, fino ad agosto 2017, era formalmente schierato contro Daesh. Fin dalla sua comparsa Daesh ha avuto la fortuna, che ne ha garantito la sopravvivenza, di essere identificato come il nemico comune da parte di una coalizione raccogliticcia: il problema di fondo era il governo non tanto del Siraq senza Daesh ma soprattutto la nuova spartizione del Medio Oriente quando si fosse aperto il vuoto del Califfato, mettendo a confronto iraniani, curdi, turchi, arabi vari, americani, russi, israeliani sulla governance dell’area. Fino a quando Daesh fosse presente, il branco avrebbe avuto il simulacro da azzannare. Il progressivo crollo di Daesh ha cominciato a mettere a nudo le relazioni opportunistiche tra alleati e il possibile impiego del topic terrorismo come strumento di pressione tra “alleati”, rispetto anche a teatri differenti, in perfetta coerenza con la definizione di Guerra Ibrida.
Abbiamo segni di questo.
Poco dopo l’attacco a Barcellona, già identificato come cruciale momento di crisi nel processo di cambiamento del terrorismo, i media europei lanciano un allarme (23 agosto 2017) a seguito di una foto intitolata “Photo Disseminated of Individual Displaying IS Flag on Phone in New York City” distribuita da SITE Intel group, noto sito USA che analizza la comunicazione del terrorismo. La fotografia mostra la mano di un uomo che mostra un telefonino con l’immagine del logo del Califfato, sullo sfondo il nuovo World Trade Center. Il giorno dopo (24 agosto 2017), sempre dal medesimo gruppo, viene lanciata l’immagine di un uomo con coltello e la scritta in italiano: “devi combatterli”. Ansa lancia la notizia così: «Attaccate l’Italia “E’ questa l’indicazione che l’Isis sta dando ai suoi affiliati, stando a quanto rivelato da Site Intelligence Group, la società statunitense che si occupa di pubblicare tutte le attività online delle organizzazioni jihadiste. “Il canale Telegram pro-Isis incita gli attacchi di lupi solitari“, riferendosi agli “jihadisti italiani”, si legge sul sito di Site, che pubblica anche l’immagine di un uomo di spalle con in mano un coltello e la scritta ‘Devi combatterli’.”
La notazione interessante è che nessuna delle immagini in questione è recente, come invece lascia intendere l’allarme lanciato dall’America: in pratica sono dei fake informativi. L’immagine del telefonino risale al settembre 2014, utilizzata allora per l’anniversario del 9/11. L’immagine dell’uomo con il coltello è la traduzione realizzata da Ghulibati a-Rum della locandina di un video di propaganda, diffuso il 26 Novembre 2016, da Ar Raqqah Wilayat, intitolato “You Must Fight Them O Muwahhid”. Insomma: le minacce dei futuri attacchi lanciate ad agosto sono il frutto di una comunicazione made in USA, che utilizza vecchi prodotti di Daesh allo scopo di allarmare l’Italia. La vicenda si ripete con l’avvicinarsi di Natale (17 novembre 2017) quando la medesima fonte USA genera una campagna di allarme, sui media italiani, giustificata dalle immagini del Califfato che annunciano un Natale di sangue avendo sullo sfondo San Pietro. In questo caso le immagini sono attuali ma si inseriscono nella propaganda stagionale di Daesh che ogni anno, puntualmente, in particolari occasioni come le feste natalizie e il fine anno, coglie l’occasione per annunciare “l’ultimo Natale” piuttosto che “il più sanguinoso”: pertanto nulla di nuovo se non circostanziato da altre evidenze capaci di attualizzare l’abituale propaganda. Le ragioni di questa falsa campagna di allarme, vittima l’Italia autori gli USA, si ritrovano o nell’errore clamoroso commesso da un conosciuta agenzia che ha sbagliato di mesi o di anni la data della loro pubblicazione o nella volontà di minacciare l’Italia utilizzando lo strumento della comunicazione, sfruttando il simulacro di Daesh. Questa seconda possibilità è verosimile e coerente con il quadro di Guerra Ibrida che usiamo come scenario, se consideriamo il teatro globale in cui la “Terza Guerra Mondiale” è in corso e il confronto che vede l’Italia differenziarsi nelle sue posizioni, e nei suoi interessi nazionali, in teatri diversi dal Siraq. Questa dinamica di ridefinizione delle alleanze, infatti, si è accelerata, proseguendo anche con strumenti diversi da quelli meramente comunicativi, mano a mano si è assistito alla dissoluzione del Califfato: ne sono esempio i rapporti russo americani, le relazioni con la Turchia e con i curdi, così come quelle tra paesi del Golfo. Gli animali del branco che circondava Daesh, smembrata la preda, si guardano intorno e ridefiniscono i circoli di appartenenza sulla base di nuove strategie e identità collettive, cominciano ad azzannarsi tra loro.
Il puzzle comincia a contare i suoi pezzi: la cornice della Guerra Ibrida, la viralità delle modalità operative semplici, la reattività della comunicazione in un periodo di buffer e la ripresa della stessa in forme più coerenti al passato all’avvio del recovery, una coalizione contro Daesh che mostra i segna dell’antagonismo ad essa interno. Giorno dopo giorno altri pezzi si aggiungono, la cornice del disegno si conferma ma il disegno è ancora polimorfico: la prevedibilità della forma che il terrorismo prenderà è bassa.
Si può tentare di evidenziare alcune probabili tendenze per i prossimi mesi:
- la Guerra Ibrida acquista evidenza nel manifestarsi di conflitti sempre più aperti tra (ex)alleati in una pluralità di teatri, tra i quali quello del Mediterraneo allargato diventa sempre più centrale, con sistemi di alleanze molto flessibili e interpretazioni pubbliche degli eventi, contrastanti. Non è improbabile che si attivino azioni limite per testare la reale affidabilità dei legami tra “partner” e le loro appartenenze;
- Deash non rinuncia a riproporsi, ma sta cercando di riaffermarsi sul terreno e non solo nei processi di comunicazione come il primo attore del terrorismo islamista: i prossimi mesi saranno cruciali per questo tentativo di recovery che se troppo lento nella percezione del pubblico segnerà un punto di non ritorno per il Daesh finora conosciuto;
- nel contesto globale l’Asia centrale ed estrema, che stanno attraendo fuoriusciti, sono luoghi potenzialmente importanti per la formazione e l’indottrinamento radicale ma anche per mantenere viva e continuare nel tempo l’esperienza di “essere stato Daesh”: l’organizzazione cambia l’esperienza identitaria resta;
- la minaccia di attacchi terroristici in Europa si mantiene alta e, soprattutto, legata a returnee, che rientrano dal Siraq, nella funzione di attivatori di circoli locali di persone già radicalizzate e già presenti in Europa. Questa minaccia è altamente imprevedibile, indirizzata a soft target ad alta intensità comunicativa quando colpiti, pianificata al più basso livello possibile di organizzazione, mimetizzata nella quotidianità;
- i cosiddetti processi di radicalizzazione continuano a sorprendere per la pluralità di motivazioni che conducono all’esito violento, secondo una strategia ricercata dal terrorismo che non vuole adepti ma “assassini consumabili”;
- le stesse strategie di comunicazione del Califfato, che stenta a riprendersi nella forma precedente, sono meno orientate alla giustificazione dell’azione e più indirizzate a movimentare l’azione. In tal senso cambiano le possibili strategie di risposta comunicativa che, senza interlocutore né messaggio specifico come prima, devono abbandonare counter/alternative narrative per individuare piuttosto format personalizzabili (contenitori di contenuti) e strategie di redirecting;
- e Daesh ancora per qualche mese resta la facile etichetta di una organizzazione terrorista islamista che è già diversa da quello che il suo nome ha indicato finora: la problematica relazione formale con al Qaeda, sullo sfondo, non necessariamente viene risolta con la sopravvivenza di uno dei due ma, non può essere escluso, anche con l’emergere di un nuovo soggetto.
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